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Storia della lingua
sarda
Storia della lingua sarda
Giovanni Lupinu
§ 1. Max Leopold Wagner e la linguistica sarda.
§ 2. Il sardo, lingua romanza.
2.1. Fonetica: elementi del vocalismo.
2.2. Fonetica: elementi del consonantismo.
2.2.1. Trattamento delle occlusive velari davanti a vocale palatale.
2.2.2. Le occlusive sorde intervocaliche.
2.2.3. Le occlusive sonore intervocaliche.
2.2.4. Trattamento delle labiovelari.
2.3. Cenni di morfologia.
2.3.1. Morfologia nominale.
2.3.2. Morfologia verbale.
2.4. Il fondo latino del lessico sardo.
§ 3. Il sostrato linguistico prelatino.
3.1. Il sostrato punico.
3.2. Il sostrato paleosardo.
§ 4. Le lingue di superstrato.
4.1. I superstrati vandalico e bizantino.
4.2. Il superstrato italiano.
4.3. Il superstrato catalano e spagnolo.
§ 5. Il quadro dialettale in Sardegna.
5.1. Varietà non sarde.
5.2. Varietà sarde.
§ 6. Alcune considerazioni sul rapporto lingua‑cultura in Sardegna.
§ 7. Nota bibliografica.
7.1. Bibliografia generale.
7.2. Bibliografia relativa ai singoli paragrafi.
Abbreviazioni (le sigle bibliografiche sono sciolte al § 7):
· ant. = antico
· barb. = barbaricino
· camp. = campidanese
· cat. = catalano
· centr. = centrale (sardo)
· fr. = francese
· gr. biz. = greco bizantino
· ital. = italiano
· lat. = latino
· log. = logudorese
· merid. = meridionale
· nuor. = nuorese
· pl. = plurale
· rifl. = riflessivo
· rust. = rustico
· sd. = sardo
· sett. = settentrionale
· sg. = singolare
· simm. = simili
· sp. = spagnolo
· tosc. = toscano
Simboli fonetici impiegati:
· ă, ĕ, ĭ, ŏ, ŭ = vocali brevi (del latino)
· ā, ē, ī, ō, ū = vocali lunghe (del latino)
· è, ò = e, o aperte (toniche)
· é, ó = e, o chiuse (toniche)
· i̯ = i semivocale
· l’ = laterale palatale (come nell’ital. figlio)
· ñ = nasale palatale (come nell’ital. gnomo)
· ḍ = occlusiva postalveolare (o cacuminale) sonora (come nel siciliano
stidda «stella»)
· k, ĝ = occlusive velari sorda (come nell’ital. chino) e sonora (ital.
ghiro)
· ƀ, đ, ǥ: spiranti sonore, bilabiale (come nello sp. haba), dentale
(sp. lado), e velare (sp. lago)
· th = fricativa interdentale sorda (come nello sp. cinco)
· ṡ = fricativa dentale sonora (come nell’ital. sgradito)
· š, ž = fricative alveopalatali sorda (come nell’ital. scena) e sonora
(fr. jour)
· ts (intensa: tts), dz (ddz) = affricate dentali sorda (come nell’ital.
zucca) e sonora (ital. zero)
· č, ǧ = affricate alveopalatali sorda (come nell’ital. cento) e sonora
(ital. gente)
Avvertenze:
· gli etimi latini sono riportati in maiuscoletto;
· solitamente, quando vengono proposti vocaboli sardi senza ulteriore
specificazione, si tratta di forme del nuorese (o comunque dei dialetti
centrali);
· il simbolo > significa «diventa, passa a»
§ 1. Max Leopold Wagner e la linguistica sarda.
Nella premessa alla ristampa anastatica della Storia della lingua di
Roma di Giacomo Devoto apparsa nel 1983, Aldo Luigi Prosdocimi definiva
l’opera riproposta «un classico», tale, a suo giudizio, anche «per chi
giudica i libri col criterio dell’up to date o con la bilancia delle
imprecisioni». L’obsolescenza è in effetti, fatalmente, destino comune
alle opere di linguistica come a quelle scientifiche in generale, e ciò
in conseguenza ovvia del fatto che acquisizioni più recenti nei dati e
nelle metodologie implicano costantemente una revisione dei risultati
delle ricerche condotte in precedenza. È perciò sempre una circostanza
da rimarcare la presenza di lavori che, nonostante il trascorrere del
tempo, mantengono inalterata la propria centralità in un àmbito
disciplinare, continuando a proporre agli studiosi del settore nuclei
problematici coi quali è ineludibile e proficuo confrontarsi: tale è
appunto il caso, per la storia della lingua latina, dell’opera del
Devoto ricordata qui sopra, e certamente altri esempi, forse più
eloquenti, potrebbero essere addotti nella medesima linea di
ragionamento.
Un fatto per certi versi ancora più significativo e, se si vuole,
sorprendente si verifica nell’àmbito della linguistica sarda in
relazione ai lavori di Max Leopold Wagner (Monaco di Baviera 1880 –
Washington 1962), geniale linguista tedesco la cui produzione
scientifica coprì un arco di più di un cinquantennio a cavallo fra
l’inizio e gli anni Sessanta di questo secolo. Il Wagner, come è noto, è
il fondatore della linguistica sarda: con la propria opera investigò gli
aspetti più importanti dell’idioma isolano, dalla fonetica alla
morfologia, dalla formazione delle parole al lessico, il tutto in
prospettiva rigorosamente storica. A ragione si è potuto affermare che
«raramente lo sviluppo delle conoscenze scientifiche su una lingua è
legato in maniera così stretta alla figura di uno studioso come è
accaduto per il sardo con Max Leopold Wagner» (G. Paulis). Ebbene,
nonostante molti anni separino ormai dalle date in cui i suoi lavori
videro la luce, è indubbio che la maggior parte di essi, accolti al loro
apparire come capolavori, conservano ancora oggi molto più che il
semplice interesse storico di documenti e rappresentano, al contrario,
l’ossatura della migliore bibliografia scientifica sul sardo. È perciò
in un certo senso doveroso, parlando della lingua sarda, e facendolo in
una prospettiva storica, incominciare proprio rendendo omaggio alla
straordinaria figura del Wagner.
§ 2. Il sardo, lingua romanza.
Il sardo è una lingua romanza o, si usa pure dire, neolatina, ossia una
parlata che discende direttamente dal latino volgare, così come il
portoghese, lo spagnolo, il catalano, l’occitanico, il
franco‑provenzale, il francese, l’italiano, il ladino, il dalmatico
(oggi estinto) e il rumeno che, adottando una metafora frequente negli
studi glottologici ispirata alla parentela umana, possono essere
definite ‘lingue sorelle’ in quanto riconducibili a una comune ‘lingua
madre’. In termini più ampi, ciò significa in sostanza che nel lungo
processo di formazione della lingua isolana, che si protrae sino ai
giorni nostri, la conquista romana del 238 a.C. e la conseguente
massiccia diffusione del latino rappresentano certamente l’episodio
centrale e più importante, destinato a disegnare in profondità lo
scheletro della lingua che comincerà a manifestarsi documentariamente
dopo il 1000 d.C. Quando parliamo di scheletro di una lingua — è bene
pure precisare — intendiamo riferirci in primo luogo alla compagine
morfologica e al lessico di base, ossia a quell’insieme di parole che in
un idioma si rinnova con maggiore difficoltà e che comunque viene
sostituito con un ritmo più lento rispetto a quello con cui si modifica
il resto del vocabolario (ne fanno parte, per es., i termini di
parentela come quelli per «padre», «madre», «fratello» etc., i numerali,
soprattutto i primi dieci, le parole che indicano le parti del corpo, il
verbo per «essere» e altro ancora). Ebbene, se consideriamo questi
elementi, che costituiscono una sorta di DNA delle lingue, non potrà
esserci alcun dubbio sul fatto che il sardo discenda dal latino: anzi,
utilizzando le parole del Wagner, si può affermare che «il sardo, come
ci si presenta nei documenti antichi e come tuttora suona nelle regioni
centrali e soprattutto nel Bittese e nel Nuorese, si può considerare,
anche foneticamente, il continuatore più schietto del latino». Alla luce
di questa circostanza, si comprende quale peso abbiano in generale i
dati forniti dalla parlata isolana nella comparazione con quelli offerti
dalle restanti lingue romanze, giacché testimoniano tutta una serie di
fatti arcaici in molti casi decisivi per comprendere i processi di
strutturazione dello spazio linguistico neolatino. Iniziamo allora a
esaminare alcuni degli aspetti che il sardo ha ereditato — variamente
modificandoli — dal latino e che contribuiscono, insieme a numerosi
altri, a conferirgli la sua particolare fisionomia linguistica.
2.1. Fonetica: elementi del vocalismo. Fra i tratti che disegnano la
peculiarità del sardo nel panorama delle lingue romanze, uno dei più
significativi è certamente offerto dall’organizzazione del sistema
vocalico. Si sa che il latino classico possedeva cinque vocali di timbro
differente, ognuna delle quali poteva essere realizzata come breve
oppure come lunga (sicché le vocali, in effetti, erano dieci): dunque, ă
(= a breve), ā (= a lunga), ĕ (= e breve), ē (= e lunga), ĭ (= i breve),
ī (= i lunga), ŏ (= o breve), ō (= o lunga), ŭ (= u breve), ū (= u
lunga). La differenza quantitativa fra vocali dello stesso timbro aveva
valore fonologico: in sostanza, così come in italiano avviene che parole
di significato differente, per il resto uguali, si distinguano soltanto
in base alla diversa quantità di una consonante (ossia per la presenza
di una consonante breve oppure lunga: es. pala ~ palla, caro ~ carro,
etc.), in latino analoghe opposizioni fonologiche si realizzavano
sfruttando la diversa quantità vocalica: ad es. lătus «fianco» ~ lātus
«largo», lĕvis «leggero» ~ lēvis «liscio», fŭgit «fugge» (presente) ~
fūgit «fuggì» (passato). Col passare del tempo, tuttavia, questo
meccanismo che permetteva di utilizzare la quantità delle vocali per
attuare distinzioni di significato si perse, probabilmente anche per il
fatto che il latino, nella sua diffusione sempre crescente, fu parlato
da popolazioni che impiegavano in origine lingue differenti e non furono
in grado di acquisire perfettamente l’idioma dei Romani. In sostituzione
delle vecchie opposizioni fondate sulla quantità vocalica, si affermò in
generale un nuovo sistema che prevedeva che le vocali originariamente
brevi fossero pronunciate più aperte delle vocali lunghe corrispondenti,
realizzate pertanto più chiuse (dunque, per es., ĕ breve venne
pronunciata come e aperta, ē come e chiusa). In particolare, se
consideriamo il punto terminale di questo processo attraverso la
testimonianza offerta dall’italiano (che riflette un’evoluzione
affermatasi in gran parte delle lingue romanze), osserviamo, da un lato
(per le vocali palatali), che in sillaba accentata ĕ breve latina si è
evoluta in e aperta (che indichiamo in questo modo: è), mentre ē lunga
ed ĭ breve hanno dato come esito comune e chiusa (= é): così, per es.,
dal lat. bĕne si ha l’ital. bène, mentre da acētu(m) e da pĭlu(m) si
hanno acéto e pélo; sull’altro versante (quello delle vocali velari),
vediamo che ŏ breve latina ha avuto per esito in italiano, sempre in
sillaba tonica, o aperta (= ò), mentre ō lunga ed ŭ breve sono confluite
in o chiusa (= ó): per es., dal lat. pŏrcu(m) deriva l’ital. pòrco,
mentre da sōle(m) e da bŭcca(m) si hanno sóle e bócca.
Il sardo presenta tuttavia un’evoluzione diversa e caratteristica del
vocalismo tonico latino, dal momento che vi si registra costantemente la
confluenza in un esito unificato delle vocali brevi con le lunghe
corrispondenti: così, per restare agli esempi portati in precedenza, dal
lat. bĕne si ha in sd. bène, da acētu(m) si ha akétu (o aǥéđu o ažéđu, a
seconda dei dialetti: ciò che importa qui è il vocalismo tonico, che
permane identico) e da pĭlu(m) si ha pílu; inoltre da pŏrcu(m) si
ottiene pórku (o prókku), da sōle(m) si ha sòle (o sòli), da bŭcca(m) è
derivato búkka. In sostanza, la caratteristica essenziale del vocalismo
sardoromanzo è il mantenimento dei timbri originari del latino dopo la
perdita della quantità (si considerino soprattutto i casi esemplificati
da pílu, a fronte dell’ital. pélo, e da búkka, a fronte dell’ital. bócca),
fatto che normalmente viene interpretato nei termini di conservazione di
un tratto arcaico della madrelingua.
Si deve inoltre porre in risalto che la presenza, in sillaba accentata,
di è aperta (come nel caso di bène) o di é chiusa (come in quello di
akétu), così come di ò aperta (sòle) o di ó chiusa (pórku) è un fatto
che non dipende dall’originaria quantità latina della vocale
interessata, ma da un meccanismo interno al sardo: accade infatti che e
ed o toniche siano pronunciate automaticamente chiuse se nella sillaba
seguente è presente una vocale di timbro i (béni «vieni!»; póḍḍine
«fior di farina») od u (kéntu «cento»; bónu «buono»), oppure un’altra e
od o chiusa per influsso di una i o di una u che seguono (ĝéneru
«genero»; kómođu «comodo»); sono invece pronunciate aperte negli altri
casi (kèra «cera», bène «bene»; bòna «buona», dòmo «casa»). Il fenomeno
appena descritto, per il quale il timbro della vocale tonica è
condizionato da quello delle vocali che seguono, prende il nome di
metafonia o metafonesi ed è presente «in tutti i dialetti genuinamente
sardi», come si esprimeva Max Leopold Wagner nella sua Fonetica storica
del sardo.
È interessante anche rilevare che i Sardi hanno da tempo piena coscienza
della particolarità del vocalismo della loro lingua nel rapporto con le
altre parlate romanze, ossia (limitandoci qui a portare a confronto
l’italiano) di corrispondenze del tipo ital. pélo ~ sd. pílu, ital. néve
~ sd. níƀe, ital. bócca ~ sd. búkka, ital. cróce sd. rúke, etc.: succede
così spesso che, quando si prendono in prestito da altre lingue parole
con é od ó chiusa in sillaba accentata, queste vengano adattate
modificandone il vocalismo in i od u secondo un meccanismo
proporzionale, come è accaduto per es. nel sd. tríttsa, tríčča «resta
d’aglio, treccia dei capelli», mutuato dall’ital. tréccia, o in fríttsa
dall’ital. fréccia, oppure in ampúlla «bottiglia» dall’ital. ampolla (o
dal cat. ampolla), e in túrta dall’ital. tórta.
2.2. Fonetica: elementi del consonantismo. Venendo ora al consonantismo
del sardoromanzo, nel segnalare alcune sue caratteristiche — che fra le
tante selezionabili appaiono sia significative, sia sufficientemente
piane a esporsi — indicheremo in primo luogo la situazione testimoniata
dalle varietà più conservative, quelle cioè che meno si sono allontanate
dal latino, segnatamente i dialetti centrali e il logudorese
(corrispondenti, dal punto di vista geografico, alla Sardegna
centro‑settentrionale, come vedremo meglio più avanti, al § 5.2),
avvertendo sin d’ora che la varietà campidanese parlata nel meridione
dell’isola mostra su diversi punti differenze più o meno sensibili per
aver partecipato separatamente a innovazioni successive.
2.2.1. Trattamento delle occlusive velari davanti a vocale palatale.
Nella nostra rassegna si può ricordare inizialmente un importante
fenomeno di conservazione, ossia il mantenimento delle consonanti
occlusive velari sorda e sonora (i foni che troviamo, rispettivamente,
nell’ital. casa e gara) davanti a vocale palatale (e, i), osservabile in
generale nel sardo centro‑settentrionale: dal lat. centu(m), ad es., si
ha in sd. kéntu (che si confronta con l’ital. cento, il fr. cent, lo sp.
ciento, il cat. cent etc.: REW 1816), oppure da cinque si ha kímbe (in
ital. cinque, in fr. cinq, in sp. cinco, in cat. cinc etc.: REW 6964);
così pure dal lat. generu(m) si ha il sd. ĝéneru (cfr. ital. genero, fr.
gendre, sp. yerno, cat. gendre etc.: REW 3730), e da gelare si ha il sd.
ĝelare (cfr. ital. gelare, fr. geler, sp. helar, cat. gelar etc.: REW
3714). È tuttavia differente la situazione che si osserva oggi in
campidanese, ove si sono affermati dopo il Mille, per imitazione della
pronuncia toscana, degli esiti che sono il frutto di quello che, in
termini tecnici, si definisce un processo di palatalizzazione (si
registra in sostanza il passaggio a un’articolazione più avanzata, di
tipo palatale): la forma per «cento» è qui infatti čéntu, per «cinque»
si ha čínku, mentre per «genero» si ha ǧén(n)eru e per «gelare» ǧelai.
2.2.2. Le occlusive sorde intervocaliche. Un’altra caratteristica
estremamente conservativa del consonantismo sardo, testimoniata oggi
soltanto dai dialetti centrali (specialmente quelli della Baronia e del
Bittese, nella regione centro‑orientale dell’isola), è il mantenimento
delle occlusive sorde bilabiale, dentale e velare (‑p‑, ‑t‑, ‑k‑) in
posizione intervocalica: in queste parlate, per fare alcuni esempi, dal
lat. cupa(m) si ha kúpa «bótte», da ape(m) ápe «ape», da rota(m) ròta
«ruota», da catena(m) katèna «catena», da locu(m) lóku «luogo», da
secare sekare «tagliare, rompere».
I restanti dialetti sardi, ossia il logudorese e il campidanese,
mostrano a questo riguardo una situazione meno conservativa, giacché si
registra in essi il passaggio delle occlusive sorde –p‑, ‑t‑, ‑k‑ fra
vocali a un’articolazione meno energica (pertanto, per indicare questo
processo di indebolimento, si parla in generale di lenizione):
rispettivamente, dunque, hanno per esito ‑ƀ‑, ‑đ‑, ‑ǥ‑, spiranti sonore
bilabiale, dentale e velare, realizzate senza che gli organi fonatori
interessati (ad es., le labbra, nel caso di ƀ) blocchino completamente
l’aria espiratoria, lasciandola anzi defluire verso l’esterno attraverso
uno stretto canale (a questo si unisce inoltre la vibrazione delle corde
vocali, che conferisce a questi foni il carattere della sonorità,
assente nei foni sordi). Restando dunque agli esempi portati in
precedenza, alla forma kúpa dei dialetti centrali corrispondono il log.
e il camp. kúƀa (con ƀ simile alla realizzazione che troviamo nella
parola sp. per «lupo», lobo), ad ápe il log. áƀe e il camp. áƀi, a ròta
corrispondono il log. ròđa e il camp. arròđa, orròđa (con đ simile alla
realizzazione che troviamo nello sp. lado «lato»), a katèna il log. e il
camp. kađèna, a lóku corrispondono il log. e il camp. lóǥu (con ǥ
confrontabile alla realizzazione che troviamo nello sp. negar «negare»)
e infine a sekare il log. seǥare e il camp. seǥai.
2.2.3. Le occlusive sonore intervocaliche. Per quanto riguarda il
trattamento delle occlusive sonore in posizione intervocalica, va ancora
una volta sottolineato che la situazione più conservativa è offerta dai
dialetti centrali, nei quali si osserva in generale il passaggio di
questi foni a spiranti sonore dello stesso luogo di articolazione:
pertanto, esemplificando, dal lat. cubare, pede(m), ego si hanno,
rispettivamente, kuƀare «nascondere», pèđe «piede», èǥo, dèǥo «io». In
logudorese e in campidanese, invece, il processo di lenizione qui
descritto è giunto, di norma, sino al dileguo delle consonanti
interessate, sicché le forme corrispondenti sono, per «nascondere», il
log. kuare e il camp. kuai, akkuai, per «piede» il log. pèe, pè e il
camp. pèi, per «io» il log. èo, dèo e il camp. dèu.
Riepilogando e riassumendo in un comodo schema una situazione che nella
realtà, stanti anche i rapporti e le reciproche influenze fra i vari
dialetti, è assai più sfumata e frantumata, possiamo dire che il
trattamento delle occlusive intervocaliche in sardo è il seguente:
dialetti centro‑orientali: ‑p‑, ‑t‑, ‑k‑ > ‑p‑, ‑t‑, ‑k‑ (=
conservazione)
‑b‑, ‑d‑, ‑g‑ > ‑ƀ‑, ‑đ‑, ‑ǥ‑ (= danno spiranti sonore)
dialetti periferici: ‑p‑, ‑t‑, ‑k‑ > ‑ƀ‑, ‑đ‑, ‑ǥ‑ (= danno spiranti
sonore)
‑b‑, ‑d‑, ‑g‑ > Ø (= zero, dileguo)
2.2.4. Trattamento delle labiovelari. Infine, per chiudere col
consonantismo, descriviamo brevemente il trattamento in sardo delle
consonanti labiovelari latine, ossia dei foni che si incontrano, per es.,
nel lat. quattuor «quattro», aqua «acqua» (labiovelare sorda), o in
anguilla «anguilla» e in lingua «lingua» (labiovelare sonora): in sardo
hanno come esito b(b), occlusiva bilabiale sonora (eventualmente lunga),
sicché nelle varietà centro‑settentrionali le forme per «quattro»,
«acqua», «anguilla» e «lingua» sono, rispettivamente, báttoro, ábba,
ambíḍḍa e límba (si veda anche la forma per «cinque», kímbe, data in
precedenza).
Differente, tuttavia, è la situazione offerta dal campidanese, ove si
registrano degli esiti di tipo italiano che si sono affermati durante la
dominazione pisana: per «quattro» si ha infatti kwátturu, kwáttru, per
«acqua» ákwa, per «anguilla» angwíḍḍa e per «lingua» língwa. Anche in
questa varietà, va però precisato, vi è traccia degli esiti più antichi
in parole del lessico rustico che non avevano corrispondenza in toscano,
per es. in silíbba «carruba», che proviene dal lat. siliqua(m).
2.3. Cenni di morfologia. Venendo ora alla morfologia, occorre sùbito
notare che anche in questo settore (meglio: soprattutto in questo
settore) il sardo conserva chiarissima l’impronta di lingua romanza,
mostrando numerosi tratti che lo ricollegano a una latinità di tipo
arcaico. Dal momento che si ha a che fare con una materia vastissima,
difficilmente compendiabile in un breve spazio, cercheremo anche in
questa occasione di indicare alcuni fatti che appaiono particolarmente
significativi, rinviando per il resto ai testi citati in bibliografia. I
dialetti ai quali faremo principalmente riferimento nella scelta degli
esempi sono sempre quelli centrali, in particolare il nuorese.
2.3.1. Morfologia nominale. Per quanto concerne la formazione
dell’articolo determinativo, esso procede dal lat. ipsu(m), ipsa(m),
ipsos, ipsas, diversamente da ciò che accade nelle restanti lingue
romanze, ove il punto di partenza è, generalmente, illu(m): l’articolo
determinativo sardo è pertanto su (es.: su káne «il cane»), sa (es.: sa
kròka «la chiocciola»), pl. sos (sos kánes «i cani»), sas (sas kròkas
«le chiocciole»). Parzialmente differente è la situazione in campidanese,
ove al plurale si ha, tanto al maschile come al femminile, is: dunque,
ad es., is kartsònis «i calzoni», iṡ míǧas «le calze».
Per quanto riguarda la flessione dei sostantivi, la formazione del
plurale avviene attraverso l’impiego del morfema consonantico –s:
dunque, per fare alcuni esempi, sg. bákka «vacca» ~ pl. bákkas «vacche»,
sg. kaƀáḍḍu «cavallo» ~ pl. kaƀáḍḍos «cavalli», sg. pèđe «piede» ~
pl. pèđes «piedi», sg. banduléri «vagabondo» ~ pl. banduléris
«vagabondi», etc. Dal punto di vista storico, è interessante notare che
questa modalità di formazione del plurale accomuna il sardo alle lingue
romanze occidentali, ad es. lo spagnolo, ove a singolari tipo cabra
«capra» rispondono plurali tipo cabras «capre», o il francese, con
chèvre ~ chèvres, etc. Si osservi infine, riguardo a quest’argomento,
che i primi segni della situazione descritta si intravedono in Sardegna
già in epigrafi di età romana, nelle quali si hanno nominativi plurali
del tipo FILIAS (per il classico filiae) e PATRONAS (per patronae).
Per quanto concerne gli aggettivi, segnaliamo soltanto che essi formano
il comparativo per mezzo di prus (dal lat. plus): es. gráve «pesante»,
prur gráve «più pesante».
2.3.2. Morfologia verbale. Nel sistema del verbo si assiste alla
riduzione delle quattro coniugazioni latine (in –āre, ‑ēre, ‑ĕre, ‑īre)
a tre, rispettivamente con infinito in ‑áre (kantáre, da cantare), ‑ere
(kúrrere, da currĕre, e tímere da timēre: come si vede da quest’ultimo
esempio, in sardo la seconda coniugazione latina si è persa a vantaggio
della terza) e –íre (finíre, da finire). All’interno della situazione
descritta si registra tutta una serie di fenomeni di estremo interesse,
come la conservazione di autentici relitti morfologici: così, per
citarne un paio, mentre nelle restanti lingue romanze pare non esservi
traccia del lat. fugĕre ma soltanto di fugīre (cfr. ital. fuggire, fr.
fuir, sp. huir, cat. fugir, etc.: REW 3550), che è forma più recente, a
Bitti (la località nel centro della Sardegna che il Wagner definiva «il
palladio dell’arcaicità») per «fuggire» si ha fúǥere; in sardo, inoltre,
l’imperfetto congiuntivo deriva direttamente da quello latino (es.:
kantáret, fakèret, dormíret), mentre le restanti lingue romanze mostrano
di averlo sostituito col piuccheperfetto (cfr. ital. cantassi, corressi,
udissi).
Forniamo ora di séguito la coniugazione del presente indicativo dei
verbi èssere «essere», áere «avere», kantáre «cantare», fákere «fare»,
dormíre «dormire» (per maggiori dettagli rimandiamo alla Grammatica del
sardo‑nuorese di M. Pittau citata in bibliografia):
èssere «essere»
(dèǥo) sòe «sono» (nóis) sémus «siamo»
(túe) sès «sei» (bóis) sédzis «siete»
(íssu) èst «è» (íssos) sún «sono»
áere «avere»
(dèǥo) áppo «ho» (nóis) ámus «abbiamo»
(túe) ás «hai» (bóis) ádzes «avete»
(íssu) át «ha» (íssos) án «hanno»
kantáre «cantare»
(dèǥo) kánto «canto» (nóis) kantámus «cantiamo»
(túe) kántas «canti» (bóis) kantáes «cantate»
(íssu) kántat «canta» (íssos) kántan «cantano»
fákere «fare»
(dèǥo) fáko «faccio» (nóis) fakímus «facciamo»
(túe) fákes «fai» (bóis) fakíes «fate»
(íssu) fáket «fa» (íssos) fáken «fanno»
dormíre «dormire»
(dèǥo) dòrmo «dormo» (nóis) dormímus «dormiamo»
(túe) dórmis «dormi» (bóis) dormíes «dormite»
(íssu) dórmit «dorme» (íssos) dórmin «dormono»
2.4. Il fondo latino del lessico sardo. Come si accennava in precedenza,
anche l’analisi del lessico fondamentale permette di cogliere con
facilità il carattere romanzo del sardo: infatti, anche ipotizzando per
un momento che niente ci fosse noto del latino (la ‘lingua madre’
unitaria, che per altre ‘famiglie linguistiche’, come quella germanica,
non è conosciuta attraverso testimonianze scritte), le corrispondenze
nel lessico fondamentale — oltreché, più importanti, nella morfologia —
fra il sardo e le altre lingue neolatine risulterebbero tanto numerose e
pervasive da non potersi spiegare con la casualità o con fenomeni di
imprestito, ma solamente pensando alla continuazione di forme identiche
ereditate da una comune madrelingua e continuate secondo sviluppi
fonetici particolari. Vediamo qui di séguito alcuni esempi:
· lat. patre(m) > sd. pátre (nel sardo antico, oggi si usa bábbu; cfr.
ital. padre, sp. padre, etc.: REW 6289);
· lat. matre(m) > sd. mátre (nel sardo antico, oggi si usa máma; cfr.
ital. madre, sp. madre, etc.: REW 5406);
· lat. homo, homine(m) > sd. ómine (cfr. ital. uomo, sp. hombre, etc.:
REW 4170);
· lat. manu(m) > sd. mánu (cfr. ital. mano, sp. mano, etc.: REW 5339);
· lat. dente(m) > sd. dènte (cfr. ital. dente, sp. diente, etc.: REW
2556);
· lat. duo > sd. dúos, dúas (cfr. ital. due, sp. dos, etc.: REW 2798);
· lat. tres > sd. très (cfr. ital. tre, sp. tres, etc.: REW 8883);
· lat. esse, essere > sd. èssere (cfr. ital. essere, cat. ésser, etc.:
REW 2917);
· lat. vivere > sd. bívere, vívere (cfr. ital. vivere, sp. vivir, etc.:
REW 9411).
Nonostante le varie dominazioni avvicendatesi nell’isola, con le loro
lingue (quasi sempre romanze), abbiano rinnovato in buona misura
l’originaria compagine latina del lessico sardo, come mostreremo meglio
più avanti parlando dei superstrati linguistici (§ 4), esempi come
quelli appena portati illustrano bene la persistenza di un nucleo
centrale di vocaboli in cui spesso si concentrano «i segni di maggiore
salienza cognitiva e culturale» della civiltà isolana (impieghiamo
parole di G. R. Cardona).
§ 3. Il sostrato linguistico prelatino.
Quando nel 238 a.C. il latino, al séguito dei Romani, giunse in
Sardegna, qui si parlavano già altri idiomi, oggi non sopravvissuti, che
furono come sommersi dalla nuova ondata linguistica, destinata col tempo
ad affermarsi e a costituire l’ossatura della futura lingua romanza del
luogo: è in riferimento a tali idiomi preesistenti al latino che
impieghiamo il termine sostrato. Un primo fatto da chiarire, in termini
generali, è che una lingua di sostrato tende a lasciare una qualche
traccia di sé, a riaffiorare in misura più o meno sensibile nella nuova
lingua che si sovrappone su di essa: si può anzi affermare che una delle
ragioni per le quali le lingue romanze, pur procedendo da un’identica
matrice, si sono differenziate nei termini oggi osservabili è offerta
dai diversi sostrati linguistici incontrati dal latino nella sua
diffusione nelle varie regioni.
Venendo ora al sardo, ove gli studi tesi a indagare le più antiche fasi
linguistiche hanno trovato un terreno particolarmente fertile, i
glottologi hanno isolato nel corso del tempo una serie di elementi che,
non attribuibili al latino né alle parlate successivamente approdate
nell’isola (per le quali si veda il § 4), vanno ascritti, con gradi
differenti di probabilità, alle lingue del sostrato preromano: fra
queste ultime occorrerà in prima istanza distinguere gli idiomi noti da
quelli di cui invece si ignora pressoché tutto.
3.1. Il sostrato punico. A partire dall’VIII sec. a.C. la Sardegna
registrò la frequentazione fenicia, con la connessa creazione di colonie
e fondachi (Karales, Nora, Bitia, Sulci, Tharros, Othoca), e sul finire
del VI sec. a.C. subì l’arrivo dei Cartaginesi, la cui presenza,
protrattasi sino all’occupazione romana, appare rilevante soprattutto
nelle regioni costiere. Dal punto di vista linguistico l’influsso punico
appare oggi piuttosto limitato, come è stato appurato dalle indagini di
Max Leopold Wagner, di Vittorio Bertoldi e, in tempi più recenti, di
Giulio Paulis: disponiamo infatti di una manciata di vocaboli di sicuro
etimo punico, ai quali va sommato un numero altrettanto esiguo di
toponimi. Riguardo ai primi, ricordiamo le voci míttsa «sorgente»,
tsikkiría «sorta di aneto simile al finocchio», tsíppiri «rosmarino»,
tséurra, tseúrra «germe, germoglio, pollone», tutte diffuse nell’area
campidanese (ove la presenza punica appare anche dalla documentazione
archeologica più intensa che non altrove), e l’altro fitonimo kúrma,
kúruma «ruta», attestato nella Baronia e nel Nuorese.
Parlando invece di toponimi, in generale è bene tenere a mente due
fatti: il primo è che i nomi di luogo di una regione hanno una spiccata
tendenza a conservarsi, nonostante nel volgere del tempo sulla medesima
regione si affaccino popoli, lingue e culture diverse. Si verifica cioè
di frequente nel corso della storia che una popolazione si stanzi in una
certa località e denomini i luoghi con termini del proprio idioma; può
accadere che più tardi subentrino genti di lingua e cultura differenti,
che però conservano, almeno in parte, i nomi in precedenza assegnati ai
luoghi, e così via. I toponimi sono quindi come dei fossili, dei
testimoni preziosi degli strati etnico‑linguistici che si sono
avvicendati nel tempo in una data regione (per es.: Milano, più
anticamente Mediolanum, è adattato da una formazione celtica, e
precisamente gallica, composta con medio‑ «in mezzo», corrispondente al
lat. medius, e ‑lanum «pianura», corrispondente al lat. planum, con la
perdita di p‑ caratteristica del celtico; si sa infatti che Milano è una
fondazione dei Galli Insubri). Il secondo fatto da tenere a mente è che
i toponimi, quando vengono assegnati, hanno un significato (tipo
Castagneto, Fiumefreddo, Montenero, etc.), che poi col tempo, con
l’evolversi e il mutare delle lingue, si perde: si dice allora che il
toponimo è divenuto opaco, cioè non è più di significato trasparente
come i normali termini del lessico. Qui entrano in gioco i glottologi,
che tentano di recuperare quel significato attraverso lo studio delle
lingue che anticamente si sono succedute in una stessa regione (lo si è
visto in pratica per Milano).
Tornando alla Sardegna, lo studio della toponimia dell’isola rivela
sporadicamente tracce della presenza punica: ricordiamo a questo
proposito il caso di Macumadas (in territorio di Núoro), Magomadas
(vicino a Bosa), Magumadas (a Gesico e a Nureci), dal punico maqom
hadash «città nuova», col primo elemento presente anche in Macomèr.
3.2. Il sostrato paleosardo. Evitando qui anche solo di accennare alle
questioni connesse all’esistenza di uno strato linguistico greco antico,
la cui identificazione appare assai problematica e controversa,
consideriamo ora la situazione preesistente in Sardegna all’arrivo dei
Fenici, dei Punici e dei Romani. Si tratta di un settore di studi fra i
più complessi, giacché, ignorandosi pressoché tutto delle lingue più
anticamente parlate nell’isola (manca, in particolare, ogni
documentazione scritta), i glottologi devono procedere
all’identificazione di quegli elementi del lessico, della fonetica e
della toponimia sarda attuali che, non potendosi spiegare alla luce di
lingue note, vanno ascritti, con un procedimento puramente negativo, al
fondo linguistico più antico, sulla cui composizione si possono
solamente formulare ipotesi più o meno plausibili.
Incominciando dal lessico, resti del sostrato paleosardo si identificano
più copiosi fra i vocaboli che indicano formazioni geomorfologiche,
piante e animali: per dare un’idea, fra i primi si possono ricordare
parole quali il camp. ǧára, che designa altipiani basaltici e granitici
(come la Giara di Gesturi, a sud di Oristano), oppure il barb. e camp.
bák(k)u, ák(k)u che significa «valle, forra, sella fra due montagne,
gola montana» (anche nella toponimia: Bacu Abis, vicino a Carbonia), o
ancora tevèle, tèle, che nelle parlate centrali indica un terreno
dirupato e boscoso preparato per la coltivazione attraverso la
debbiatura; fra i fitonimi menzioniamo il nuor. thinníǥa, log. tinnía,
camp. tsinníǥa «sparto», éni, la denominazione del tasso in Ogliastra, a
Orgòsolo e a Dorgali, e ancora il centr. athánda, thánda, thránda,
tsántsa «papavero selvatico»; fra i nomi degli animali, infine, si può
ricordare il tipo assíle, kassíle, grassíƀile, grassíle e simm.,
impiegato in logudorese e in campidanese settentrionale per indicare la
martora; ancora, la denominazione thurunkròne, thilingròne, tilingròne,
(at)tilinǧòne, tsiringòne, sittsiringòni e simm. presente in logudorese
e campidanese per il lombrico, oppure la voce centr. e log. gròḍḍe,
lòḍḍe per «volpe».
Non sono mancati, peraltro, tentativi di sondare meglio la composizione
del sostrato paleosardo, cercando anche un collegamento con la sostanza
storica eventualmente presente nei racconti mitologici riguardanti
l’isola tramandati dagli scrittori antichi. Si sono così ottenuti
risultati incoraggianti nell’individuazione di una componente ‘iberica’,
attraverso la comparazione effettuabile in alcuni casi fra relitti
linguistici paleosardi e relitti ‘iberici’ presenti nel basco (lingua
non indoeuropea parlata nel nord‑est della Spagna e nel sud‑ovest della
Francia): in questa direzione di ricerca, particolarmente significativa
è la voce campidanese bèǥa «valle acquitrinosa», che «insieme al
castigliano vega e al portoghese, gallego veiga… risale a (terra) (i)baika
‘terreno irriguo, che si trova nei pressi di un corso d’acqua’, da ibai
‘fiume’ (ancora oggi la parola basca suona così), più il suffisso ‑ko, ‑ka
esprimente come in basco la pertinenza» (G. Paulis). Il dato
storico‑linguistico più notevole, tuttavia, è che questo vocabolo trova
diffusione nel sud‑ovest dell’isola, proprio laddove il racconto
mitologico segnala l’approdo di Norace, il fondatore di Nora,
proveniente da Tartesso alla testa di una schiera di coloni iberici.
Un’altra componente del sostrato linguistico isolano che pare delinearsi
con una qualche chiarezza è quella libica, identificabile attraverso una
serie di congruenze che connettono il paleosardo ai dialetti berberi
parlati nel nord Africa, che dell’antica lingua libica sono i
continuatori: così, per portare uno degli esempi più significativi, già
il Wagner aveva segnalato che numerosi termini sardi che indicano
piccoli animali iniziano con la sillaba tha‑, ta‑, tsa‑, thi‑, ti‑, tsi‑,
thu‑, tu‑, tsu‑, come ad es. thilikèrta, tiliǥèrta, tsiliǥèrta e simm.
«lucertola» (si osservi che nel secondo elemento si riconosce il lat.
lacerta(m)), thilikúkku, tiliǥúǥu, tsiliǥúǥu e simm. che indica talora
il geco, talora il lumacone nudo, thilipírke, tilipírke, tsilibrílke e
simm. «cavalletta», e altri ancora (si veda anche la denominazione del
lombrico, data in precedenza). Ebbene, si a che fare in questi casi con
un antico prefisso che si confronta col prefisso (e suffisso) t (in
molti dialetti th) che in berbero serve a specificare il genere
femminile (es. izem «leone», t‑izem‑t «leonessa»).
Non ci soffermiamo qui a ricordare le proposte del Wagner tese a
individuare nelle parlate sarde, e in particolare in quelle centrali, la
conservazione di abitudini fonetiche ereditate dalle lingue del sostrato
(in questi termini si inquadrerebbero, secondo il grande linguista
tedesco, fenomeni quali l’avversione a –f‑ nei dialetti interni; la
prostesi vocalica davanti a r‑ nelle parlate meridionali, sulla quale si
dirà qualcosa più avanti, nella sezione dedicata alla partizione
dialettale del sardo; la tendenza alle articolazioni alveolari; lo
sviluppo di suoni cacuminali; il colpo di glottide che compare in
diversi dialetti come esito di ‑k‑, ‑l‑ e –n‑): recenti critiche
formulate in relazione a tali proposte ne rendono infatti consigliabile
una valutazione prudente.
Si presta invece a considerazioni interessanti il ricco e variegato
tesoro toponimico dell’isola, in particolare, ancora una volta, quello
delle regioni centrali: in un recente studio condotto sui nomi di luogo
dei comuni di Fonni, Gavoi, Lodine, Mamoiada, Olìena, Ollolai, Olzai,
Orgòsolo e Ovodda, Heinz Jürgen Wolf ha messo in evidenza che, mentre
nelle restanti regioni della Romània la percentuale di microtoponimi —
quei nomi, cioè, che in una certa località vengono attribuiti alle
proprietà e alle formazioni geomorfologiche e sono conosciuti, di norma,
soltanto dagli abitanti della località stessa — di origine prelatina non
raggiunge generalmente l’1% e comunque non si spinge quasi mai oltre il
2%, nel centro montagnoso della Sardegna si arriva in alcuni casi, come
quello di Olzai, a oltre il 50%, ciò che costituisce un dato eccezionale
e conferma l’interesse di questa regione arcaicissima della Sardegna
nello studio delle più antiche fasi linguistiche. Il limite quasi sempre
invalicabile connesso ad analisi di questo tipo è che si possono sì
isolare dei macro‑ e dei microtoponimi ascrivibili al sostrato
paleosardo, ma non si riesce a ricostruire il significato di cui essi in
origine dovevano essere portatori, proprio perché, come si è messo più
volte in risalto, non si sa pressoché nulla delle lingue antichissime
che li espressero. Anche in questa caso, tuttavia, esistono delle
eccezioni per il fatto che l’attuale lingua sarda, in alcune circostanze
fortunate, conserva nel suo lessico comune gli appellativi che hanno
dato origine ai nomi di luogo: così, per es., proprio a Orgosòlo
sopravvive la voce preromana orgòṡa «luogo umido, acquitrinoso», da cui
appunto il nome del paese è stato ricavato; così pure nei dialetti
meridionali si trova il fitonimo úrtsula, urtsúla «smilace»,
attribuibile al sostrato paleosardo e alla base del toponimo Urzuléi.
§ 4. Le lingue di superstrato.
Nel 456 d.C. la Sardegna, ormai completamente latinizzata, fu occupata
dai Vandali: da questo momento in poi subirà una sequela di dominazioni
straniere, che tuttavia non avranno per conseguenza l’imposizione
completa e duratura delle rispettive lingue o di almeno una di esse,
come era accaduto in precedenza coi Romani, ma più semplicemente
provocheranno l’accoglimento da parte dell’idioma locale di una serie
cospicua di elementi esterni, destinati in ogni caso a non alterarne in
profondità l’originario scheletro latino più antico. In generale, per
indicare uno strato linguistico che in séguito a eventi storici diversi
(ad es.: invasioni, colonizzazioni, influssi culturali) si sovrappone a
un idioma già in uso in una determinata area, provocando in esso una
serie di mutamenti di ordine fonetico, talvolta morfosintattico ma
soprattutto lessicale, si impiega in linguistica storica il termine
superstrato: una causa invocata dagli studiosi per spiegare il diverso
sviluppo assunto dalle lingue romanze nelle varie località — che si
aggiunge a quella costituita dalle differenti condizioni di sostrato
incontrate dal latino, come abbiamo già accennato — è data appunto dai
differenti superstrati che su di esse si posarono e interagirono nel
corso del tempo.
4.1. I superstrati vandalico e bizantino. I Vandali, popolazione
germanica sul cui idioma sappiamo pochissimo, assoggettarono l’isola dal
456 al 534 d.C.: ciò di cui siamo certi, in ogni caso, è che nel sardo
attuale non compaiono tracce dirette di un superstrato linguistico
germanico. È bene tuttavia ricordare che durante la dominazione
vandalica (così come nella successiva età bizantina) la Sardegna fu
unita amministrativamente all’Africa e incrementò in misura sensibile i
contatti con la cristianità di quella regione, della quale accolse anche
eminenti rappresentanti costretti all’esilio dai sovrani vandali,
difensori dell’arianesimo: alla luce di questi fatti si può ritenere che
l’età vandalica abbia favorito in Sardegna l’influenza di modelli
linguistici latini di ascendenza nordafricana, determinando in alcuni
casi l’avvio di particolari fenomeni fonetici, morfologici e lessicali,
fra i quali ci limitiamo a ricordare l’assunzione di i‑ prostetica
davanti a s‑ impuro (fenomeno del quale si accennerà al § 5.2).
Nel 534 d.C. la Sardegna entrò a far parte dell’esarcato africano di
Bisanzio. Dal punto di vista linguistico il Wagner, errando, era
propenso a ritenere l’influsso bizantino sul sardo tutto sommato
modesto, in ogni caso limitato alle sfere amministrativa ed
ecclesiastica, e ciò per il condizionamento negativo esercitato su di
lui da un difetto nella ricostruzione del panorama storico e culturale
dell’epoca: in sostanza, sino a non molto tempo fa si tendeva a studiare
e a porre in primo piano soprattutto certi aspetti della dominazione
bizantina nell’isola, precisamente gli aspetti ‘ufficiali’, salvo poi
generalizzare le conclusioni ricavate da tali ricerche e avvalorare
l’idea di una presenza dei nuovi dominatori piuttosto ‘leggera’, in
grado di esprimere sulla cultura sarda solamente un influsso di tipo
curiale ed aulico, ristretto agli ambienti elevati della chiesa e
dell’amministrazione imperiale. Si comprende in conseguenza
l’atteggiamento del Wagner, cui si accennava in precedenza: nella sua
indagine, il linguista tedesco era favorevole a riconoscere la
provenienza al sardo dal superstrato medioellenico esclusivamente di
termini del lessico ufficiale (tipo cavallare «cavaliere», dal gr. biz.
kaballáris, kondáke, kondáǥe «registro di atti giuridici», dal gr. biz.
kontáki(on), etc.) e religioso (tipo munistere, muristere, muristeri
«monastero», dal lat. *monisteriu(m) incrociato col gr. biz. monastéri;
in questo settore si può citare anche il caso di Sant’Avendrace,
denominazione di un quartiere di Cagliari, con l’agionimo riconducibile
al gr. biz. Euandráki(on), pronunciato evandráki, da cui, con metatesi,
avendráki e infine l’odierno Avendrace).
È merito speciale di uno studioso sardo, Giulio Paulis (cui si deve
anche l’etimologia di Avendrace appena esposta), quello di aver messo in
evidenza, attraverso gli strumenti dell’analisi linguistica, la maggiore
articolazione e profondità dell’influsso bizantino in Sardegna,
allargando la considerazione, in precedenza ristretta soprattutto all’àmbito
della corte e della chiesa, alla vita quotidiana, alle strutture sociali
ed economiche e alla cultura materiale. Il risultato di tale mutato
atteggiamento nella ricerca si è concretizzato nell’identificazione di
un più consistente e variegato apporto al lessico sardo da parte del
superstrato bizantino, al quale vanno ascritte voci quali il camp. ĝi̯áni
«morello (detto del manto dei cavalli e dei buoi)», il log. iskontri̯are
«dilombarsi, sfibrare (detto del cavallo)», «fiaccarsi, rimbambire
(detto dell’uomo)», il log. kèra óƀiđa, camp. čèra óƀiđa «propoli», il
verbo annakkare «cullare», attestato a Baunei, il log. e camp. lèppa
«coltello a serramanico», il log. sett. elóǥu «vaiolo», e altre ancora.
4.2. Il superstrato italiano. Allentatisi progressivamente i legami con
Bisanzio in séguito all’espansione islamica nel Mediterraneo, tra il IX
e il X sec. sorsero nell’isola, nel vuoto di potere creatosi, i quattro
giudicati di Gallura, di Cagliari, d’Arborea e di Torres, vere e proprie
entità statali autonome. A partire dall’inizio del Mille, poi, iniziò la
progressiva penetrazione commerciale e politica di Genova e di Pisa in
Sardegna, inizialmente attraverso enti ecclesiastici legati alle due
repubbliche marinare e per l’iniziativa di casati nobiliari, in séguito
anche in modo più diretto, sicché, in definitiva, furono numerosi i
cittadini di esse che si trasferirono nell’isola ottenendo privilegi di
vario tipo: in particolare, l’ingerenza pisana si affermò più
decisamente nei giudicati di Cagliari e di Gallura, mentre nel giudicato
di Torres il predominio genovese fu in progresso di tempo più netto,
specialmente nella città di Sassari; una posizione in generale più
autonoma, seppure fra alterne pressioni, seppe invece conservare il
giudicato di Arborea.
La conseguenza linguistica più evidente delle vicende storico‑politiche
appena ripercorse per grandi linee fu la penetrazione nel sardo di un
numero considerevole di voci italiane antiche, come si riscontra in
alcuni casi già nei primi documenti dell’XI sec. Avvertendo che nel
passaggio al sardo esse hanno subìto una serie di adattamenti alla
fonetica locale, segnaliamo, fra le altre, il log. béttsu, camp. béčču
«vecchio»; il log. e camp. ǧóvanu «giovane» (tosc. ant. giovano); il
log. abbaiđare «guardare» (ital. ant. (a)guaitare); il log. attsivire,
camp. aččiviri «preparare, provvedere di, fornire» (ital. ant. accivire);
il log. sett. indzuldzare, indzundzare e simm. «ingiuriare» (tosc. ant.
ingiulia); il centr. manikare, log. sett. maniǥare «mangiare» (ital.
ant. manicare); il log. virgòndza, birgòndza, camp. briǥúnǧa «vergogna»;
il log. čáffu, tsáffu «schiaffo» (tosc. ant. ciaffo); il log. ánku,
camp. ánki «che» in frasi che esprimono augurio o malaugurio (tosc. ant.
anco); il log. barréḍḍu «fardellino dei ragazzi», camp. rust. orréḍḍu
«gonnella bianca di tela» (ital. ant. guarnello), etc.
L’influsso pisano, inoltre, fu particolarmente incisivo nel meridione
dell’isola, dove modificò in modo sensibile la veste fonetica del
campidanese, che proprio a partire da questo periodo cominciò ad
assumere una serie di tratti distintivi rispetto alle parlate logudoresi:
già in precedenza (ai §§ 2.2.1 e 2.2.4) si è segnalato come per
imitazione della pronuncia toscana si affermarono, dapprima a Cagliari e
poi più ampiamente in tutta la regione meridionale, esiti del tipo čínku,
čéntu (a fronte delle forme logudoresi corrispondenti kímbe, kéntu, in
cui si ha il mantenimento dell’occlusiva velare davanti a vocale
palatale), e ákwa, língwa (a fronte di log. ábba, límba, con la
risoluzione labiale delle labiovelari latine). Più avanti (al § 5.1) si
avrà inoltre modo di accennare al ruolo svolto dall’influsso toscano e
genovese nel determinare la particolare fisionomia assunta dal
logudorese settentrionale e dai dialetti gallurese e sassarese,
considerati, questi ultimi, non sardi.
Infine, va segnalato che l’influsso italiano, stemperatosi durante il
periodo catalano‑aragonese e spagnolo, è ripreso intenso dopo che, nel
1720, la Sardegna è passata ai Piemontesi e in séguito è divenuta parte
dello Stato italiano: in particolare, l’apertura verso l’esterno imposta
dall’esperienza delle due guerre mondiali, il servizio militare
obbligatorio (svolto spesso in caserme del continente), la creazione di
una rete stradale che ha in parte annullato l’antico isolamento delle
regioni centrali, la scolarizzazione di massa e la diffusione capillare
sul territorio dei mezzi di informazione nazionale hanno fatto sì che la
conoscenza dell’italiano si diffondesse in misura massiccia, tanto che
oggi è l’italiano e non il sardo la lingua materna di numerosi giovani.
Il risultato delle vicende sommariamente descritte è sintetizzabile in
un apporto lessicale dal continente sempre crescente, che si realizza
non solo in quei settori del vocabolario che vanno a rappresentare le
nuove tecnologie, le nuove realtà sociali, politiche, economiche (sicché
si incontrano nei più recenti dizionari del sardo termini come trattòre,
autocráve, púlma, eletròne, parlaméntu, universidáde, cóntu currènte,
sintássi, termómetru e via dicendo), ma anche rinnovando, attraverso
processi più o meno graduali, porzioni di lessico già esistenti (per
fare un esempio: è difficile sentire, per «avvenire, succedere»,
akkontèssere, akkontèssiri, dallo sp. acontecer, o akkaèssere,
akkađèssiri, dallo sp. acaecer, incrociato con accadere nella forma
campidanese, mentre tende a prevalere l’italianismo suttsèdere,
suttsèdiri, suččèdiri). A ciò si sommano l’alterazione di antichissime
abitudini fonetiche (ad es.: nelle giovani generazioni si rileva spesso
la perdita delle articolazioni cacuminali, sostituite da realizzazioni
dentali imitate dall’italiano, cosicché la parola per «gallo» si
pronuncia sempre più púddu e sempre meno púḍḍu) e gli influssi sulla
sintassi (l’ordine delle parole), mentre la morfologia si dimostra più
stabile.
4.3. Il superstrato catalano e spagnolo. Nel 1323 un corpo di spedizione
guidato dall’infante Alfonso, figlio di Giacomo II d’Aragona, sbarcò in
Sardegna, accadimento che può essere considerato l’atto iniziale di un
nuovo periodo della storia sarda che vide l’isola, sino al 1720,
soggetta in modo pressoché ininterrotto dapprima al dominio catalano‑aragonese
e poi a quello spagnolo. Dal punto di vista linguistico, queste vicende
hanno lasciato un’impronta profondissima nella fisionomia del sardo,
basti pensare che Max Leopold Wagner poteva scrivere cinquant’anni fa
che, fra tutti i superstrati che hanno partecipato alla formazione della
parlata isolana, quello iberico deve essere riguardato come il più
incisivo, e di gran lunga: giudizio che si può ancora oggi
sottoscrivere, con l’unica precisazione che, assai più di quello
spagnolo, fu penetrante l’influsso catalano.
La diffusione del catalano, lingua ufficiale dei conquistatori sino al
1479, fu più rapida e intensa nella regione meridionale dell’isola che
non in quella settentrionale, ove in ogni caso essa fu tutt’altro che
blanda, come mostrano i numerosi imprestiti giunti in quest’epoca anche
al logudorese; in particolare, poi, il catalano si affermò nelle città,
e a Cagliari più che altrove, mentre nel contado si continuò a parlare
il sardo. Per testimoniare la forza con la quale il nuovo idioma si
radicò nella Sardegna meridionale, si usa citare l’espressione ancora in
uso in campidanese no šíri ṡu ǥađalánu, letteralmente «non sapere il
catalano», che viene impiegata in riferimento a persona che ha
difficoltà a esprimersi (dunque: «non saper parlare»). Volendo poi
citare degli esempi della penetrazione del nuovo idioma nel lessico
sardo, non si ha che l’imbarazzo della scelta: ricordiamo, un po’ a
caso, voci come il camp. aíči «così» (cat. així); il camp., centr. e
log. merid. bardúf(f)ula «trottola» (cat. baldufa); il log. e camp.
barƀéri «barbiere» (cat. barber); il camp. e barb. bláu, bráu «azzurro,
celeste» (cat. blau); il camp. buččákka, centr. buttsákka, log. bušákka
«tasca, saccoccia» (cat. butxaca, botxaca, bojaca); il log. (fíǥu)
burdašòtta «specie di fico nero, brogiotto» (cat. bordissot); il camp. e
centr. brassólu, brattsólu, bartsólu «culla» (cat. bressol, brassol); il
camp., barb. e centr. kađíra «sedia» (cat. cadira); il log. kamèḍḍa
«arco del giogo dei buoi» (cat. camella); il log. karabássa «specie di
zucca lunga» (cat. carabassa); il log. kartsòffa, iskartsòffa, camp.
kančòffa, končòffa (cat. carxofa, escarxofa); il log. e camp. síndri̯a
«anguria» (cat. sindria, cindria); il log. e camp. gravéllu «garofano» (cat.
clavell); il log. diṡidzare, camp. diṡiǧǧai «desiderare» (cat.
desitjar); il camp. skrukkullai «indagare, scrutinare, rovistare» (cat.
escorcollar); il log. ispram(m)are, camp. spram(m)ai «spaventare» (cat.
espalmar); il log. istimare, camp. stimai «amare, voler bene, stimare» (cat.
estimar); il camp. e nuor. ferréri «fabbro» (cat. ferrer); il camp.
gòččus «composizioni poetiche in onore dei santi» (cat. goigs); il camp.
léǧǧu, centr. lédzu «brutto» (cat. lleig); il log. leƀréri «conca di
terracotta» (cat. llibrell); il log. matéssi «stesso» (cat. mateix); il
camp. míǧa, centr. mídza «calza» (cat. mitja); il log. e camp. oril’èttas
«frittura di pasta al burro con zucchero o miele» (cat. orelleta); il
camp. arratapiñáta, arratapinnáta «pipistrello» (cat. rata-pinyada); il
log. e camp. retáulu «tavola dipinta» (cat. retaule); il camp. arrevél’u
(de óu) «tuorlo dell’uovo» (cat. rovell (d’ou); il camp. sab(b)áta
«scarpa» e sab(b)at(t)éri «calzolaio» (cat. sabata, sabater); il camp.
sa ṡèu, nuor. sa ṡèa «la cattedrale» (cat. seu); il log. e camp.
tankare, tankai «chiudere» (cat. tancar); il camp. ullèras, ul’èras
«occhiali» (cat. ulleres), etc.
Per quanto riguarda lo spagnolo, il suo uso tardò a farsi strada
nell’isola, soprattutto in quelle zone in cui più aveva preso piede il
catalano, ossia nella Sardegna meridionale, ove bisognerà attendere la
fine del Seicento per poter parlare di una vera e propria fruizione del
nuovo codice linguistico. Anche per questa ragione si è potuto affermare
che l’influsso linguistico spagnolo è stato più sensibile nella regione
settentrionale dell’isola, come mostrano alcuni casi in cui, per
esprimere un medesimo significato, si ha in campidanese un termine di
origine catalana e in logudorese uno di provenienza spagnola: così, per
es., si è già visto che per «brutto» si ha in camp. léǧǧu (dal cat.
lleig), mentre in log. prevale féu (dallo sp. feo), e così pure le
composizioni poetiche in onore dei santi sono denominate gòččus (dal cat.
goigs) in camp., mentre in log. si ha gòṡos (dallo sp. gozos). Ecco
comunque altri esempi di vocaboli penetrati in sardo dallo spagnolo:
log. akkab(b)are, camp. akkab(b)ai «finire, terminare» (sp. acabar);
log. e centr. kòrča, kòrtsa, camp. kòrča, kròčča «coltre» (sp. colcha);
log. akkunortare, camp. akkunortai «confortare, consolare» (sp. ant.
conhortar); nuor. adi̯óṡo, log. e camp. adi̯óṡu «addio» (sp. adiós);
log. attoppare, camp. attoppai «incontrare» (sp. topar); log. e camp. ap(p)oṡéntu,
ap(p)uṡéntu «stanza, camera, alloggio» (sp. aposento); log. arréu «di
continuo» (sp. ant. arreo); camp. aṡúlu «azzurro» (sp. azul); log. e
camp. de bbáđas «invano, inutilmente» (sp. de badas); nuor. e log.
barratsèllos, camp. barračèllus «guardie campestri» (sp. ant. barrachel);
log. kal(l)ènte, camp. kal’ènti, kal(l)ènti «caldo» (sp. caliente); log.
e camp. kalentúra, kallentúra «febbre» (sp. calentura); log. amparare,
camp. amparai «proteggere, difendere» e log. diṡamparare, camp. diṡamparai
«abbandonare» (sp. amparar, desamparar); log. duđare, camp. duđai
«dubitare» (sp. dudar); log. infađare, camp. infađai «infastidire,
annoiare» (sp. enfadar); log. ispantare, camp. spantai «spaventare» (sp.
espantar); log. e camp. fulánu «un tale» (sp. fulano); log. loǥrare,
camp. loǥrai «ottenere, conseguire» (sp. lograr); log. luègo, luègu,
camp. luègu(s) «sùbito» (sp. luego); log. olvidare, camp. olvidai
«dimenticare» (sp. olvidar); log. e camp. pirikíttu «dolcetto glassato»
(sp. periquillo); log. e camp. prátta «argento» (sp. plata); log.
soƀrare, suƀrare «avanzare, sopravanzare» (sp. sobrar); log. e camp.
sumbréri «cappello» (sp. sombrero); log. assustare, camp. assustai
«spaventare» (sp. asustar); log. e camp. ventána «finestra» (sp. ventana),
etc.
Resta infine da rilevare che per numerose voci riesce difficile
stabilire con certezza se esse provengano al sardo dal catalano o dallo
spagnolo, stante la stretta affinità esistente fra le due lingue: è il
caso, ad es., di termini quali il log. e camp. karrèra, karrèla «via,
strada» (cat.‑sp. carrera); del log. faltare, fartare, camp. fartai
«mancare» (cat.‑sp. faltar); del log. kansare, camp. kansai, kantsai
«stancare», rifl. «stancarsi» (cat.‑sp. cansar); del log. e camp. gána
«voglia, desiderio, appetito» (cat.‑sp. gana); del log. e camp. mánta
«coperta» (cat.‑sp. manta); del log. e camp. poṡáđa «luogo di riposo,
albergo» (cat.‑sp. posada); del log. e camp. díčča «fortuna» (cat. ditxa,
sp. dicha); del log. mukkađòre, camp. mukkađòri «fazzoletto» (cat.‑sp.
mocador), etc.
§ 5. Il quadro dialettale in Sardegna.
5.1. Varietà non sarde. Iniziando dalle varietà linguistiche alloglotte
presenti nell’isola, ricordiamo in primo luogo l’algherese, parlata
catalana ancora oggi vitale ad Alghero, nella regione nord‑occidentale,
nata in séguito al ripopolamento della cittadina nel 1354 con elementi
catalani. Inoltre, a Carloforte e a Calasetta, nella Sardegna
sud‑occidentale, si parla un dialetto ligure, il tabarchino,
sviluppatosi a partire dal 1738, quando Carlo Emanuele III di Savoia
concesse l’isola di San Pietro a dei coloni originari di Pegli
provenienti da Tabarca, di fronte alla costa tunisina.
Più complessa è la questione relativa al sassarese e al gallurese,
varietà parlate nella regione settentrionale dell’isola: a ovest il
sassarese, tutt’oggi in uso, oltre che nella città di Sassari, a Sorso,
Porto Torres e Stintino; a est il gallurese, che ha come zona di
diffusione appunto la Gallura (seppure non uniformemente: al suo
interno, ad es., Luras costituisce un’isola linguistica logudorese). In
effetti, nonostante in passato sul tema si siano avute polemiche anche
accese, è più che fondato dal punto di vista scientifico — adottando
cioè dei parametri di classificazione di tipo glottologico e non
geografico o, peggio, politico — considerare, come faceva il Wagner, il
sassarese e il gallurese dei dialetti italiani che devono essere riuniti
al corso e al toscano, in ciò basandosi sulle profonde differenze fono‑morfologiche,
sintattiche e lessicali che allontanano queste parlate dal sardo nel suo
complesso. Volendo supportare quest’affermazione con delle prove
concrete, ci limitiamo a citare tre fatti, fra i tanti: il primo, di
ordine fonetico, è che tanto nel gallurese come nel sassarese (e nei
dialetti toscani) è assente il fenomeno della metafonia così
caratteristico del sardo, per il quale, come si è già chiarito (§ 2.1),
il timbro della vocale tonica è determinato meccanicamente da quello
delle vocali che seguono; restando sempre nell’àmbito della fonetica, un
secondo fatto che si può sottolineare è che, mentre il sardo conserva le
consonanti finali, nel sassarese‑gallurese così come nel corso queste
cadono (con ripercussioni importantissime sulla morfologia, dal momento
che si determina in questo modo l’assenza di morfemi consonantici);
infine, proprio nell’àmbito della morfologia, che in questioni di questo
tipo è dirimente, rammentiamo che mentre l’articolo determinativo è in
sardo su, sa, sos, sas (dal lat. ipsu(m); al pl. in campidanese si ha is,
che in ogni caso ha la medesima origine), in sassarese e in gallurese si
ha al sg. lu, la, al pl. li (a partire dal lat. illu(m)).
Dal punto di vista storico, per comprendere le ragioni e le radici di
questa condizione di diversità, bisognerà in primo luogo prendere atto
dell’origine recente dei due dialetti in regioni in cui in precedenza si
parlava il logudorese, lingua in cui furono redatti ancora nel 1316 gli
Statuti municipali di Sassari. A partire dal XII sec., tuttavia,
l’influenza toscana nella Sardegna del nord (così come, si è già visto,
nella regione meridionale) era divenuta forte per effetto delle
immigrazioni provenienti dal continente, fatto che si evince, oltre che
dagli imprestiti (toscani, ma anche genovesi) presenti nei già ricordati
Statuti Sassaresi, anche analizzando la particolare fisionomia dei
dialetti logudoresi settentrionali, che mostrano una veste fonetica con
profondi influssi continentali. A partire da questo periodo, dunque,
dovette iniziare il processo di formazione delle due parlate
settentrionali; l’intenso spopolamento che interessò nei secoli
successivi il nord Sardegna e il conseguente ruolo svolto da genti di
origine corsa, pisana e genovese nel ripopolamento di queste zone
dovette dare poi un impulso decisivo a tale processo. Per la Gallura, in
particolare, sappiamo, grazie agli studi del geografo francese Maurice
Le Lannou, che a partire dall’inizio del 1700 essa fu ripopolata per tre
quarti da Corsi, il che giustifica il fatto che oggi il gallurese si
presenti ai nostri occhi come un dialetto corso. Per il sassarese, poi,
si può pensare col Wagner che esso fosse in origine «un dialetto plebeo
che, secondo tutti gli indizi, si stava formando a poco a poco a partire
dal sec. XVI, dopo che varie pestilenze mortalissime avevano decimato la
popolazione della città; dei superstiti la massima parte era di origine
pisana e còrsa, e non mancavano neanche i genovesi. Così nacque quel
dialetto ibrido che oggi si parla a Sassari, a Porto Torres ed a Sorso,
la cui base è un toscano corrotto con qualche traccia genovese (‑r‑ per
–l‑: ara ‘ala’; mera ‘mela’…), e con non pochi vocaboli sardi».
5.2. Varietà sarde. Venendo ora ai dialetti propriamente sardi, la prima
e fondamentale divisione riguarda lo spazio linguistico settentrionale,
in cui è parlato il logudorese, e quello meridionale, in cui è parlato
il campidanese. Già in precedenza abbiamo messo in rilievo alcune
importanti caratteristiche fonetiche che separano le due varietà,
rilevando che esse sono storicamente da imputarsi all’assunzione in area
meridionale di tratti innovativi legati all’influsso pisano
(rammentiamo: la palatalizzazione delle occlusive velari, esemplificata
dal tipo čéntu, e l’esito italiano delle labiovelari, come mostra il
tipo ákwa), sicché si può concludere che è il logudorese, e in
particolare il logudorese centrale (nella regione intorno a Núoro), la
parlata più conservativa rispetto al latino, e questo non soltanto nell’àmbito
dell’isola, bensì dell’intera Romània.
Volendo poi menzionare degli altri fenomeni che contribuiscono a
differenziare i due principali gruppi dialettali, ricordiamo che
ciascuno di essi presenta un particolare tipo di prostesi (la prostesi è
quel fenomeno per il quale si ha lo sviluppo di una vocale non
etimologica in principio di parola: si pensi all’ital. letterario
istrada, iscuola etc.): in logudorese, infatti, si registra la prostesi
di i‑ davanti a s + cons. (es.: dal lat. scire si hanno log. e nuor.
iskire «sapere»; da spica(m) nuor. ispíka, log. ispíǥa «spiga»; da stare
log. e nuor. istare «stare», etc.), fenomeno oggi assente in campidanese
(ove le forme corrispondenti sono pertanto širi, spíǥa, stai); in
campidanese, al contrario, si osserva la prostesi di a, e, o davanti a
r‑ iniziale di parola, che contestualmente si rafforza (es.: dal lat.
rivu(m) si hanno le forme arríu, erríu «fiume, ruscello»; da rota(m)
arròđa, orròđa «ruota»), sviluppo che viceversa è assente in logudorese
(ove le forme corrispondenti sono ríƀu, ríu e ròta, ròđa). Ancora, un
tratto distintivo che separa le due varietà è la chiusura in campidanese
delle e e delle o finali in i ed u rispettivamente: per es., log. káne
«cane» ~ camp. káni, log. kánes «cani» ~ camp. kánis; log. dòmo «casa» ~
camp. dòmu, log. dòmos «case» ~ camp. dòmus. Un altro fatto importante,
che riguarda la morfologia e che già in precedenza è stato ricordato, è
che il campidanese ha come articolo determinativo pl. is per entrambi i
generi grammaticali, laddove il logudorese presenta sos per il maschile
e sas per il femminile.
Molti altri fatti potrebbero essere ancora enumerati per rendere conto
delle differenze oggi osservabili fra il logudorese e il campidanese,
tuttavia preferiamo affidare questo compito a dei testi in trascrizione
fonetica, che consentono un contatto immediato con le parlate vive. In
conclusione, però, vale la pena di puntualizzare che una distinzione
così netta, come quella qui proposta, fra due sole varietà è sì
scientificamente corretta, ma potrebbe — oltre che tenere conto delle
aree linguistiche di transizione presenti, con caratteristiche miste,
fra un gruppo e l’altro — essere più articolata per il fatto che il
panorama dialettale dell’isola è assai ricco, specialmente se si
adottano dei parametri di classificazione di tipo fonetico: si può
infatti affermare, senza esagerare troppo, che pressoché ogni paesino
della Sardegna ha nella pronuncia particolarità proprie (per uno sguardo
più approfondito sull’argomento, accludiamo una carta linguistica tratta
da un contributo di Maurizio Virdis in LRL, citato in bibliografia).
Proponiamo ora tre testi sardi in trascrizione fonetica adattata che
ricaviamo, insieme alla traduzione in italiano (letterale: la
modifichiamo soltanto in alcuni dettagli), da una raccolta del linguista
Gino Bottiglioni pubblicata nel 1922. Incominciamo dalla varietà nuorese:
sa kréṡi e ṡántu vrantsísk e lúla.
unu bandíu nugoréṡu vi kkirkáu đa ṡa dzustíssia k aía ffatt una mòrte
e ffi kkuƀáu nd una tank akkúrtsi a llúla; fi ddisperáu e ssikommènti vi
mmèđa divóttu e ffit un ómmine mèđa ƀónu, s est invokáu a ssántu
vrantsísku ki átterar ƀòrtaṡ aía ssarƀáu bandíoṡ e impinnò a ssu ṡántu
ki ṡi lu đíat áe ssárƀau, li đía ffáker una kréṡia n onòre ṡúo dzust
i ss or úƀe vi kkuƀá íssu. sor de sa dzustíssia ṡun koláuṡ i ss orikéḍḍ
úƀe vi kkuƀáu ṡu bandíu e nno ll ána ƀíđu e ṡu bandíu rikkonnoskènt a
mmantéṡu ṡ impinnassiòne vatta, a ffravikáu
ṡa kréṡia e kkađ ánnu víntsaṡ a ssa mòrte, i ssu meṡ e mái̯u est aṇḍáu
kin tóttu ṡa vamíllia a ffáke ssa noƀèn a ssántu vrantsísku.
La chiesa di San Francesco di Lula.
Un bandito nuorese era cercato dalla giustizia, che aveva fatto una
morte (poiché aveva ucciso) ed era nascosto in una tanca vicino a Lula;
era disperato e siccome era molto devoto ed era un uomo molto buono, si
è rivolto a San Francesco che altre volte aveva salvato banditi e fece
voto al Santo che se lo avesse salvato, gli avrebbe fatto una chiesa in
onore suo giusto vicino dove era nascosto esso. Quelli della giustizia
sono passati vicinissimo dove era nascosto il bandito e non l’hanno
visto e il bandito riconoscente ha mantenuto l’impegno fatto, ha
fabbricato la chiesa e ogni anno fino alla morte, nel mese di maggio è
andato con tutta la famiglia a fare la novena a San Francesco.
Il testo che segue è nella varietà logudorese di Pozzomaggiore:
sa ƀíƀera.
b aíađ unu đémpus ki ṡa ƀíƀera aṇḍái rrèa ǥommènti ṡoṡ ómines e dde
iǥústu íssa ṇḍe vi mmèđa ƀaddzòṡa. ma nòstra ṡiññòra dispi̯áǥiđa, a
kkélfiđu ǥastiǥáre ṡa supérbia ṡúa, faǥíṇḍela ṡa ƀi̯úl fèa e ssa
ƀi̯úṡ úmile đe đóttu ṡoṡ átteroṡ animáles.
una đíe ṡa ƀíƀera ṡ e ppost a ppassiddzáre đòtta ƀaddzòṡa iṇḍ una
bèlla índza; in su mèntres ki ƀasseddzái nnarái kki vi ssa ƀi̯úl bèlla
đe đóttu ṡoṡ átteroṡ animáles e ssi brullái dde s atteliǥèlta ƀuítte
no aṇḍái rrèa ǥommènte íssa. de iǥústu nòstra ṡiññòra ṡ iṇḍe vi
mmèđa đispi̯áǥiđa e a ffíntsas pi̯ántu e arrabbiáđa, lèađ unu vúste e
lli đađ unu béllu ándzu, vaǥíṇḍel abbaššár e aṇḍár istrišèṇḍe
ǥommènt e iṡ atteliǥèlta. eđ es pu ǥússu ǥi ṡa ƀíƀera ǥòmmo no áṇḍa
ppi̯ú rrèa.
La vipera.
C’era un tempo che la vipera andava dritta come gli uomini e di questo
essa ne era molto vanitosa. Ma Nostra Signora, dispiaciuta, ha voluto
castigare la sua superbia, facendola la più brutta e la più umile di
tutti gli altri animali.
Un giorno la vipera si è posta a passeggiare tutta vanitosa in una bella
vigna; nel mentre che passeggiava, diceva che era la più bella di tutti
gli altri animali e si burlava della lucertola perché non andava dritta
come lei. Di questo Nostra Signora se ne era molto dispiaciuta ed ha
perfino pianto e arrabbiata, prende un bastone e le dà una bella
percossa, facendola abbassare e andare strisciando come la lucertola. Ed
è per ciò che la vipera ora non va più dritta.
Presentiamo infine un testo nella varietà campidanese di Monserrato:
ǧenniáu.
a ssu đémpu de is piṡánuṡ ingúna n ǧenniáu ḍḍúi vuèđa na minièr i
òru, ǥ immòi no ssi ƀóđiđ aǥattái ƀruṡ e nno ssi ši ssu ƀúntu ǧústu de
innú vuèđa nnántiṡi. su mer e sa minièra đeníađ una vílla bèlla ǥe ss
arròṡa ǥi vuèđ unu spántu su ḍḍa bíri. kápitađ una ddi ǥ iǥústa
ƀassèndi nd unu ǥurridói e sa minièra, no ssi ši kommènti ṡi ṡía,
kústa nd est arrútt e inkotía nč iḍḍ ađ in méṡu, boččendíḍḍa ǥáṡu
ṡúbbitu. de insáṡa no ssi ši sa minièra ǥummènti ṡíađ andáđa; fáttu
stái ka ṡ intèndiđ akkánt e ǧenniáu nu đeṛáiu ǥi đèssiđi. e ss ánima
de ǥússa ǧóvuna bèlla ǥi đèssi kund unu đeṛái i òru i ađ a ttèssi ṡèmpiri
víntsaṡ a kkándu iṡ oratsiòni de ǥaṛankún ánima bòna no ḍḍ ant a
llibberái de ssa ƀèna. e ppo iǥússu ǥgi ǥústu llóǥu ṡi nára ǧenniáu ǥi
óṛi nnái ǧenn i òru.
Genniau.
Al tempo dei Pisani, qui in Genniau c’era una miniera d’oro che ora non
si può trovare più e non si sa il punto giusto dove era prima. Il
padrone della miniera aveva una figlia bella come la rosa, che era una
meraviglia a vederla. Capita un giorno che questa, passando in un
corridoio della miniera, non si sa come sia, questa è caduta e l’ha
chiusa in mezzo, uccidendola quasi subito. Da allora non si sa la
miniera come sia andata; fatto sta che si sente accanto a Genniau un
telaio che tesse. È l’anima di quella giovane bella che tesse con un
telaio d’oro e tesserà fino a quando le orazioni di qualche anima buona
non la libereranno dalla pena. È per quello che questo luogo si chiama
Genniau che vuol dire Porta d’oro.
§ 6 Alcune considerazioni sul rapporto lingua‑cultura in Sardegna.
Dovendo affrontare il discorso dei rapporti fra lingua e cultura in
Sardegna è in qualche modo obbligo prendere le mosse dalle riflessioni
del Wagner su questo tema, uno dei prediletti nella sua attività di
ricerca, come appare del resto in modo chiarissimo sin dal titolo di
alcune importanti pubblicazioni del glottologo tedesco. Basti ricordare
che nel 1921 vide la luce il fondamentale Das ländliche Leben Sardiniens
im Spiegel der Sprache. Kulturhistorisch‑sprachliche Untersuchungen («La
vita rustica della Sardegna riflessa nella lingua. Ricerche
culturali‑storico‑linguistiche»), opera recentemente proposta in
edizione italiana a cura di Giulio Paulis nella quale è studiato,
secondo i dettami dell’indirizzo Wörter und Sachen («parole e cose»), il
lessico agro‑pastorale sardo in connessione con la cultura rustica della
quale esso è espressione: il sottotitolo, in particolare, accomunando
nella prospettiva storica cultura e lingua, cose e parole, chiarisce uno
dei cardini teorici costantemente in circolo nell’opera del Wagner,
riassumibile nella persuasione che solo la conoscenza profonda della
cultura di un popolo, sperimentata e vissuta in prima persona e non
semplicemente studiata sui libri, può avviare a intenderne correttamente
le manifestazioni linguistiche, convinzione che, del resto, trova
riscontro in modo complementare nella preferenza accordata dal Wagner
allo studio del lessico, il settore più efficace, attraverso l’analisi
della sua origine e composizione, dei valori semantici espressi in modo
dominante, delle singole vicende etimologiche, a lumeggiare la storia
culturale.
Nel 1932, poi, il Wagner pubblicava l’articolo Die sardische Sprache in
ihrem Verhältnis zur sardischen Kultur («La lingua sarda in rapporto
alla cultura sarda»), ove, come pure è stato recentemente sottolineato,
viene espresso con chiarezza il concetto di Geist der Sprache («spirito
della lingua») a definire l’impronta profonda che una determinata
favella riceve dalla cultura, dalla mentalità, dalle vicende storiche
della comunità presso la quale è in uso: così il sardo, in quanto,
fondamentalmente, lingua di pastori e di contadini, si presentava agli
occhi del Wagner in modo consequenziale come ricco di espressioni
attinenti alla sfera rustica, alle operazioni e agli oggetti che
sostanziavano la dominante cultura agro‑pastorale dell’isola, mentre
risultava al contrario povero di espressioni astratte, per le quali
ricorreva a imprestiti da altre lingue (quelle dei dominatori di turno)
o, più di rado, all’uso traslato di termini di significato concreto.
Nel 1950, infine, il Wagner pubblicava la sua opera forse più
importante, La lingua sarda. Storia, spirito e forma, nella quale
riemerge in modo sin troppo evidente, programmatico, il riferimento allo
«spirito della lingua», a chiarire come il centro degli interessi del
linguista tedesco in relazione al sardo fosse costituito
dall’intersezione di una cultura tipica, caratterizzata in senso
nettamente arcaico da una struttura sociale e da un’economia
agro‑pastorale, con una lingua altrettanto peculiare nel panorama delle
lingue romanze, e ciò, a un primo livello di analisi, per la presenza di
tratti fono‑morfologici, sintattici e lessicali straordinariamente
conservativi, ma, a un livello più profondo di introspezione, per la
consonanza con quella cultura isolana che tanto incontrò la simpatia
spirituale del Wagner.
Concetti come «spirito (o genio) di una lingua» non possono naturalmente
essere più accettati in toto, come categorie linguistico‑filosofiche con
le quali sia possibile operare ancora oggi; riteniamo tuttavia che la
trama dei riferimenti teorici presenti nei lavori del Wagner, peraltro
sempre tenue, sottintesa e calata nella prassi della ricerca, possa
agevolmente essere isolata dall’aspetto concreto, qualificante, delle
indagini portate avanti dal glottologo tedesco, dalle quali emerge una
capacità di lettura del rapporto fra lingua e cultura dei Sardi che a
tutt’oggi non ha eguali.
Lingua, dunque, di pastori e di contadini, il sardo rivela a un’analisi
attenta del suo lessico e delle sue espressioni concrete e metaforiche
questo carattere, come è agevole evidenziare selezionando un po’ a caso
alcuni fra gli innumerevoli esempi segnalati dal Wagner. Nei dialetti
centrali (Bitti, Núoro, Dorgali, Fonni) per «strizzare i panni» si usa
l’espressione múrĝere ṡos pánnos, letteralmente «mungere i panni», che
nasce in una cultura pastorale nella quale, in modo istintivo e fors’anche
scherzoso, si paragona l’operazione della strizzatura a quella della
mungitura. Una porta socchiusa è detta in logudorese e nelle varietà
centrali a un imbòe, a unu òe, a bbòe etc. perché permette il passaggio
di un solo bue per volta. In campidanese, ancora, per «ciarlare,
chiacchierare» è in uso il verbo arǧolai e similmente arǧoléri significa
«chiacchierone», entrambi derivati da arǧòla «aia», evidentemente perché
quando si stava nell’aia a ventilare il grano il passatempo più diffuso
era quello di chiacchierare. La trebbiatura (log. tríula, camp. tréula)
è un’operazione talmente caratteristica e importante nella cultura
agraria sarda da divenire un termine di paragone per definire altre
esperienze e un punto di riferimento per circoscrivere il periodo
dell’anno in cui essa ha luogo: in campidanese tréulu significa infatti
«chiasso, scompiglio» («perché il sardo pensa al rumore che produce la
battitura del grano nelle aie a mezzo dei buoi o dei cavalli»: sono
parole del Wagner) e, nella regione settentrionale della Sardegna,
tríulas è il nome del mese di luglio. Questi sono soltanto alcuni
esempi, ma numerosi altri ugualmente significativi potrebbero essere
citati al riguardo.
Anche ponendosi da un’angolazione diversa dell’analisi linguistica, è
agevole evidenziare la fondamentale nota culturale della lingua sarda,
langue de paysans: ci riferiamo al caso dei tabù linguistici, il cui
punto di partenza è la convinzione, universalmente diffusa, che
pronunciare il nome delle cose non serva unicamente a designarle, ma
abbia come conseguenza la loro evocazione. Nel caso di esseri o eventi
temuti o comunque sgradevoli (si pensi, per esempio, a certe malattie),
perciò, viene bandito dall’uso anche il nome, che non può essere
pronunciato perché, così facendo, il parlante renderebbe presente
l’essere o l’evento indesiderato. In questi casi, dunque, il nome
coperto da tabù linguistico viene sostituito con un eufemismo (cioè, in
pratica, un’espressione sostitutiva, meno compromessa: male incurabile)
o addirittura col silenzio. In sardo, in coerenza con una cultura
contadina nella quale gli animali predatori sono causa di forte
preoccupazione, la donnola è chiamata eufemisticamente in molti centri
yána e múru, cioè letteralmente «fata del muro», assimilata in qualche
modo alle piccole fate che si riteneva abitassero le tombe preistoriche
che per questo motivo prendono il nome di dòmoṡ de yánas. In altre zone
(Sardegna meridionale) essa è invece chiamata, partendo da identiche
finalità interdittorie, búkk’ e mèli, bukkamèli, cioè, letteralmente,
«bocca di miele», perché la donnola sarda è ghiotta di miele. Stesso
discorso per il nome della volpe, la cui pericolosità per i pollai è
persino proverbiale: in sardo si ha in conseguenza tutta una serie di
denominazioni eufemistiche per indicare questo predatore, alcune volte
tratte da nomi propri di persona, come mari̯áne, dzoṡèppe, ǧommaría,
altre volte generiche come animále, bésti̯a, mattsòne (cioè «dalla coda
a forma di mazza»), etc. Nel Dizionario etimologico sardo M. L. Wagner
ritrova la continuazione del lat. vulpe(m) = gúrpe soltanto in 3 centri
(Orani, Ollolai, Ottana), sottolineando che nel resto dell’isola si
hanno per l’animale denominazioni tabuistiche.
L’esemplificazione potrebbe continuare a lungo, ma qui basti riassumere
il concetto fondamentale: la lingua sarda ha elaborato a partire dalla
sfera della vita agro‑pastorale, il settore privilegiato dell’esperienza
della comunità in cui essa è in uso, tutta una serie di espressioni,
metafore, sviluppi semantici secondari, interdizioni linguistiche in cui
emerge in modo caratterizzante e prevalente il sistema primario di
referenti proprio di questa comunità.
È opportuno, tuttavia, precisare alcune questioni. Lo studio del Wagner
in relazione al sardo, condotto — come si è più volte accennato — in
prospettiva storico‑etimologica e rivolto soprattutto alle zone interne
della Sardegna, nelle quali più a lungo si è mantenuta una struttura
socioculturale straordinariamente arcaica e una lingua assai vicina al
latino, è uno studio che guarda al passato, mira cioè a cogliere nella
civiltà sarda gli aspetti più conservativi. È noto che lingua e cultura
di una comunità hanno ritmi di sviluppo differenti: «il mutamento
linguistico è più lento del mutamento culturale e perciò la lingua
conserva le tracce delle culture perdute: i nomi restano più a lungo
delle cose» (R. Lazzeroni). Così, per fare un esempio concreto, la
locuzione italiana mangiare la foglia, «comprendere le intenzioni
nascoste di una persona», «intuire che le cose stanno in modo differente
da come si vorrebbero fare apparire», nasce probabilmente in ambiente
contadino come similitudine rispetto al mondo animale, alludendo al
fatto che gli animali vaccini adulti, dopo aver poppato da lattanti,
hanno mangiato le foglie, hanno cioè maturato esperienza e dunque la
scaltrezza che consente di non essere ingannati. È evidente che
l’espressione, se l’interpretazione che se ne è data è corretta, ha un
sostrato culturale differente da quello in cui si svolge la nostra
civiltà industriale e tecnologica, nella quale tuttavia essa continua a
essere usata sebbene non più compresa in profondità: solo l’analisi
storico‑etimologica restituisce alla locuzione indicata una
contestualizzazione adeguata.
In termini simili, ossia in un’ottica diacronica, si colloca la
riflessione del Wagner in rapporto alla lingua sarda, con una differenza
sostanziale, però: la Sardegna che lo studioso tedesco conobbe al
principio di questo secolo era una terra in cui «regnavano ancora,
almeno nell’Interno, condizioni di vita patriarcali, che ricordano i
tempi biblici e omerici». In tale situazione, con il ritmo del mutamento
culturale straordinariamente rallentato, la storia della cultura e la
storia della lingua procedevano — specialmente nelle regioni più
appartate — di pari passo o comunque con ritmi non troppo difformi: per
fare un esempio concreto, le motivazioni culturali sottese al tabù
linguistico che colpisce il nome della volpe dovevano essere largamente
presenti alla comunità dei Sardi, trasparenti cioè e non opache quali
sarebbero divenute in breve volgere di tempo nel contesto di una civiltà
prevalentemente urbana.
Oggi il quadro è mutato enormemente: l’isola è uscita, in modo
progressivo dopo le due guerre mondiali, dal secolare isolamento nel
quale era immersa, e la repentina accelerazione del ritmo culturale alla
quale si è assistito negli ultimi decenni ha creato un divario fra la
lingua, in origine espressione di un mondo fondamentalmente pastorale e
agrario, e la cultura, sempre più legata a predominanti modelli di tipo
industriale e tecnologico che vengono dall’esterno. In quest’ottica di
piani sfalsati, che qui si è cercato brevemente di illustrare, si gioca
oggi il rapporto lingua‑cultura in Sardegna e, in confronto al passato,
si assiste a una situazione assai pericolosa per l’idioma isolano, nello
scollamento continuo dalla cultura della quale è stato a lungo
espressione, cultura che, d’altra parte, è per molti versi ancora oggi
vitale e deve essere considerata un’acquisizione indispensabile per
radicare le generazioni più giovani nel proprio territorio, per creare
un senso di appartenenza.
§ 7. Nota bibliografica.
7.1. Bibliografia generale. Per la terminologia linguistica si può
consultare, ad es.:
· G. L. Beccaria (a cura di), Dizionario di linguistica e di filologia,
metrica, retorica, Torino (Einaudi) 1996 (19891).
Per quanto concerne il sardo, come storia della lingua e opera in
assoluto fra le più significative fra quelle scritte sull’idioma
isolano, va menzionata innanzitutto:
· M. L. Wagner, La lingua sarda. Storia, spirito e forma, a cura di G.
Paulis, Núoro (Ilisso) 1997: riedizione dell’opera comparsa per la prima
volta nel 1950 e in séguito con alcune ristampe, sconsigliabili tuttavia
per i numerosi errori presenti nella trascrizione delle voci sarde e per
l’assenza di indici; da segnalare, nella recente riedizione, anche la
densa Prefazione del curatore.
In tempi più vicini a noi hanno visto la luce:
· A. Sanna, Introduzione agli studi di linguistica sarda, Cagliari (Valdés)
1957;
· E. Blasco Ferrer, Storia linguistica della Sardegna, Tübingen (Max
Niemeyer) 1984.
Come grammatica descrittiva, assai chiara e non priva di analisi di tipo
storico‑etimologico, è consigliabile:
· M. Pittau, Grammatica del sardo-nuorese. Il più conservativo dei
parlari neolatini, Bologna (Pátron) 19722.
Più recentemente, fra gli altri lavori di questo tipo, ricordiamo:
· E. Blasco Ferrer, Ello Ellus. Grammatica sarda, Núoro (Poliedro) 1994.
Fra i dizionari, va ricordato per primo:
· M. L. Wagner, Dizionario etimologico sardo (= DES), 3 voll.,
Heidelberg (Carl Winter) 1960‑1964: eccellente per gli studiosi,
tuttavia di consultazione un po’ complicata per i non addetti ai lavori
a causa del criterio di ordinamento dei lemmi.
Recentemente è comparso un nuovo dizionario etimologico del sardo:
· M. Pittau, Dizionario della lingua sarda. Fraseologico ed etimologico,
I vol.: sardo‑italiano, Cagliari (Gasperini) 2000 (più etimologico che
non fraseologico).
Fra i dizionari non etimologici, ricordiamo:
· G. Spano, Vocabolariu Sardu‑Italianu, Cagliari (Tipografia Nazionale)
1851, e Vocabolario Italiano‑Sardo, Cagliari (Tipografia Nazionale)
1852: di quest’opera è uscita una recente riedizione in 4 voll.,
comprendente i 5000 lemmi dell’inedita Appendice manoscritta di G. Spano,
a cura di G. Paulis, Núoro (Ilisso) 1998;
· V. Porru, Dizionariu universali sardu‑italianu, Casteddu (Tipografia
Arciobispali) 1832;
· L. Farina, Bocabolariu Sardu Nugoresu‑Italianu, Sassari (Gallizzi)
1987, e Vocabolario Italiano‑Sardo Nuorese, Sassari (Gallizzi) 1989
(ricchi di materiali interessanti, ma da utilizzare con cautela);
· M. Puddu, Ditzionàriu de sa limba e de sa cultura sarda (= DitzLcs),
Cagliari (Condaghes) 2000 (eccellente vocabolario monolingue, ricco di
fraseologia);
· E. Espa, Dizionario sardo italiano dei parlanti la lingua logudorese,
Sassari (Carlo Delfino) 2000.
Per la fonetica vanno segnalati:
· M.L. Wagner, Fonetica storica del sardo, a cura di G. Paulis, Cagliari
(Trois) 1984 (edizione ital. di Historische Lautlehre des Sardischen,
Halle (Max Niemeyer) 1941);
· M. Contini, Étude de géographie phonétique et de phonétique
instrumentale du sarde, 2 voll., Alessandria (Dell’Orso) 1987;
· M. Virdis, Fonetica del dialetto sardo campidanese, Cagliari (Della
Torre) 1978.
Per la morfologia e la formazione delle parole, oltre a tenere presenti
le grammatiche sopra citate, si vedano:
· M. L. Wagner, Flessione nominale e verbale del sardo antico e moderno,
in «L’Italia dialettale» 14 (1938), pp. 93-170 e 15 (1939), pp. 1-29;
· M. L. Wagner, Historische Wortbildungslehre des Sardischen, Bern (Francke)
1952.
Per la sintassi è disponibile:
· M. A. Jones, Sardinian Syntax, London - New York (Routledge) 1993.
Fra le inchieste dialettologiche sul sardo, ricordiamo:
· R. Böhne, Zum Wortschatz der Mundart des Sárrabus (Südostsardinien),
Berlin (Akademie Verlag) 1950;
· P. Jäggli, Die Mundart von Sennori (Provinz Sassari, Sardinien),
Zürich (Juris Druck) 1959;
· Ch. Gartmann, Die Mundart von Sorso (Provinz Sassari, Sardinien),
Zürich (Juris Druck) 1967;
· E. Blasco Ferrer, Le parlate dell’Alta Ogliastra. Analisi
dialettologica / Saggio di storia linguistica e culturale (Studi di
Linguistica sarda, 1), Cagliari (Della Torre) 1988;
· H. J. Wolf, Studi barbaricini. Miscellanea di saggi di linguistica
sarda (Studi di Linguistica sarda, 2), Cagliari (Della Torre) 1992;
· M. Piras, La varietà linguistica del Sulcis. Fonologia e morfologia
(Studi di Linguistica sarda, 3), Cagliari (Della Torre) 1994.
Si tengano inoltre presenti i contributi sul sardo di E. Blasco Ferrer,
M. Contini, A. Dettori, I. Loi Corvetto, M. Virdis, H. J. Wolf in:
· G. Holtus – M. Metzeltin – Ch. Schmitt (a cura di), Lexikon der
Romanistischen Linguistik (= LRL), IV vol., Tübingen (Max Niemeyer)
1988, pp. 836‑935.
7.2. Bibliografia relativa ai singoli argomenti trattati.
§ 1. In relazione alle tematiche qui discusse, si veda la Prefazione di
Giulio Paulis alla riedizione de La lingua sarda, citata in precedenza.
Per un’elencazione dei principali lavori del Wagner sul sardo, si veda:
· G. Paulis, Max Leopold Wagner e la Sardegna del primo Novecento,
saggio introduttivo a M. L. Wagner, La vita rustica della Sardegna
riflessa nella lingua, a cura di G. Paulis, Núoro (Ilisso) 1996 (=
edizione ital. di Das ländliche Leben Sardiniens im Spiegel der Sprache.
Kulturhistorisch‑sprachliche Untersuchungen, Heidelberg (Carl Winter)
1921).
Per un inquadramento e una valutazione della produzione scientifica del
Wagner nell’àmbito della linguistica romanza, si può consultare:
· I. Iordan – J. Orr, Introduzione alla linguistica romanza, a cura di
L. Borghi Cedrini, Torino (Einaudi) 1973 (= edizione ital. di An
Introduction to Romance Linguistics. Its Schools and Scholars, London
1937), pp. 84‑86, 165, 456‑457.
§ 2. Per la posizione del sardo nell’àmbito delle lingue romanze, si può
utilizzare, ad es.:
· C. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, Bologna (Pátron)
19826.
Per la nozione di ‘lessico di base’, si veda:
· G. R. Cardona, Dizionario di linguistica, Roma (Armando) 1988, s.v.
lessico.
Per la fonetica si è fatto riferimento specialmente alla Fonetica
storica del sardo del Wagner, per la morfologia alla Flessione nominale
e verbale del sardo antico e moderno dello stesso autore e alla
Grammatica del sardo‑nuorese del Pittau, per il lessico al capitolo de
La lingua sarda del Wagner dedicato al fondo latino del lessico sardo:
tutte opere già citate in precedenza.
L’abbreviazione REW impiegata nel testo si riferisce a:
· W. Meyer‑Lübke, Romanisches Etymologisches Wörterbuch, Heidelberg (Carl
Winter) 19926 (rist.): è il dizionario etimologico delle lingue romanze,
coi vari lemmi contraddistinti da numeri arabi.
§ 3. Sul sostrato punico, oltre all’apposito capitolo de La lingua
sarda, si sono utilizzati soprattutto:
· M. L. Wagner, Die Punier und ihre Sprache in Sardinien, in «Die
Sprache» 3/1 (1954), pp. 27‑43, e 3/2 (1955), pp. 78‑109;
· G. Paulis, Sopravvivenze della lingua punica in Sardegna, in L’Africa
romana. Atti del VII Convegno di Studio (Sassari 1989), Sassari 1990,
pp. 599‑639.
Nella discussione sul sostrato paleosardo, abbiamo tenuto presenti la
sezione de La lingua sarda che tratta dell’elemento indigeno e inoltre,
per la fitonimia:
· G. Paulis, I nomi popolari delle piante in Sardegna. Etimologia,
storia, tradizioni, Sassari (Carlo Delfino) 1992;
per le notizie sul berbero:
· M. L. Wagner, Restos de latinidad en el norte de África, Coimbra 1936;
per la toponimia isolana:
· G. Paulis, I nomi di luogo della Sardegna, Sassari (Carlo Delfino)
1987;
· M. Pittau, I nomi di paesi, città, regioni, monti, fiumi della
Sardegna, Cagliari (Gasperini) 1997;
· H. J. Wolf, Toponomastica barbaricina. I nomi di luogo dei comuni di
Fonni, Gavoi, Lodine, Mamoiada, Oliena, Ollolai, Olzai, Orgòsolo, Ovodda,
Núoro (Insula) 1998.
§ 4. Per l’analisi dei vari superstrati linguistici avvicendatisi
nell’isola, si sono tenuti particolarmente in considerazione i capitoli
de La lingua sarda dedicati all’elemento germanico, all’elemento greco e
bizantino, all’elemento italiano e all’elemento catalano e spagnolo, e
inoltre, citandoli in base alla cronologia dei corrispettivi
superstrati, i seguenti lavori:
· G. Lupinu, La prostesi di i- davanti a s- impuro nelle iscrizioni
latine di Sardegna e nel sardo neolatino, c.d.s.;
· G. Paulis, Lingua e cultura nella Sardegna bizantina. Testimonianze
linguistiche dell’influsso greco, Sassari (L’asfodelo) 1983;
· I. Loi Corvetto, La Sardegna, in I. Loi Corvetto – A. Nesi, La
Sardegna e la Corsica, Torino (UTET) 1993, pp. 1‑205;
· G. Paulis, Le parole catalane dei dialetto sardi, in J. Carbonell – F.
Manconi (a cura di), I Catalani in Sardegna, Milano (Pizzi) 1984, pp.
155‑163.
§ 5. Oltre al capitolo de La lingua sarda dedicato a i dialetti sardi,
si sono utilizzati, per la discussione sul sassarese e il gallurese:
· M. L. Wagner, La questione del posto da assegnare al gallurese e al
sassarese, in «Cultura Neolatina» 3 (1943), pp. 243‑267;
· A. Sanna, Il dialetto di Sassari (e altri saggi), Cagliari (Trois)
1975;
· G. Paulis, Gino Bottiglioni e la Sardegna. Lingua e cultura, in Gino
Bottiglioni, Vita sarda, a cura di G. Paulis e di M. Atzori, Sassari (Dessì)
1978, pp. 7‑62;
· M. Le Lannou, Pastori e contadini di Sardegna, a cura di M. Brigaglia,
Cagliari (Della Torre) 1979 (edizione ital. di Pâtres et paysans de la
Sardaigne, Tours (Arrault) 1941).
Per la classificazione dialettale delle parlate sarde e per i testi in
trascrizione fonetica, si sono poi consultati, rispettivamente:
· M. Virdis, Areallinguistik / Aree linguistiche, in G. Holtus – M.
Metzeltin – Ch. Schmitt (a cura di), Lexikon der Romanistischen
Linguistik (= LRL), IV vol., Tübingen (Max Niemeyer) 1988, pp. 897‑913;
· G. Bottiglioni, Leggende e tradizioni di Sardegna (Testi dialettali in
grafia fonetica), Genève (Olschki) 1922.
§ 6. Oltre che al fondamentale lavoro del Wagner La vita rustica della
Sardegna riflessa nella lingua, con il saggio introduttivo di G. Paulis,
già citati in precedenza, si è fatto riferimento particolare al seguente
articolo:
· M. L. Wagner, Die sardische Sprache in ihrem Verhältnis zur sardischen
Kultur, in «Volkstum und Kultur der Romanen» 5 (1932), pp. 21‑49.
Sono stati consultati anche:
· R. Lazzeroni, La cultura indoeuropea, Roma‑Bari (Laterza) 1998;
· M. Cortelazzo - P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua
italiana, Bologna (Zanichelli) 19992, s.v. fòglia (la spiegazione
etimologica indicata è di U. E. Paoli).
In generale sui rapporti fra lingua e cultura, si veda:
· G. R. Cardona, Introduzione all’etnolinguistica, Bologna (Il Mulino)
1976.
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