Giovanni Lupinu
Storia della lingua sarda
§ 1. Max Leopold Wagner e la linguistica sarda.
§ 2. Il sardo, lingua romanza.
2.1. Fonetica: elementi del vocalismo.
2.2. Fonetica: elementi del consonantismo.
2.2.1. Trattamento delle occlusive velari davanti a vocale palatale.
2.2.2. Le occlusive sorde intervocaliche.
2.2.3. Le occlusive sonore intervocaliche.
2.2.4. Trattamento delle labiovelari.
2.3. Cenni di morfologia.
2.3.1. Morfologia nominale.
2.3.2. Morfologia verbale.
2.4. Il fondo latino del lessico sardo.
§ 3. Il sostrato linguistico prelatino.
3.1. Il sostrato punico.
3.2. Il sostrato paleosardo.
§ 4. Le lingue di superstrato.
4.1. I superstrati vandalico e bizantino.
4.2. Il superstrato italiano.
4.3. Il superstrato catalano e spagnolo.
§ 5. Il quadro dialettale in Sardegna.
5.1. Varietà non sarde.
5.2. Varietà sarde.
§ 6. Alcune considerazioni sul rapporto lingua‑cultura in Sardegna.
§ 7. Nota bibliografica.
7.1. Bibliografia generale.
7.2. Bibliografia relativa ai singoli paragrafi.
Abbreviazioni (le sigle bibliografiche sono sciolte al § 7):
· ant. = antico
· barb. = barbaricino
· camp. = campidanese
· cat. = catalano
· centr. = centrale (sardo)
· fr. = francese
· gr. biz. = greco bizantino
· ital. = italiano
· lat. = latino
· log. = logudorese
· merid. = meridionale
· nuor. = nuorese
· pl. = plurale
· rifl. = riflessivo
· rust. = rustico
· sd. = sardo
· sett. = settentrionale
· sg. = singolare
· simm. = simili
· sp. = spagnolo
· tosc. = toscano
Simboli fonetici impiegati:
· ă, ĕ, ĭ, ŏ, ŭ = vocali brevi (del latino)
· ā, ē, ī, ō, ū = vocali lunghe (del latino)
· è, ò = e, o aperte (toniche)
· é, ó = e, o chiuse (toniche)
· i̯ = i semivocale
· l’ = laterale palatale (come nell’ital. figlio)
· ñ = nasale palatale (come nell’ital. gnomo)
· ḍ = occlusiva postalveolare (o cacuminale) sonora (come nel siciliano stidda «stella»)
· k, ĝ = occlusive velari sorda (come nell’ital. chino) e sonora (ital. ghiro)
· ƀ, đ, ǥ: spiranti sonore, bilabiale (come nello sp. haba), dentale (sp. lado), e velare (sp. lago)
· th = fricativa interdentale sorda (come nello sp. cinco)
· ṡ = fricativa dentale sonora (come nell’ital. sgradito)
· š, ž = fricative alveopalatali sorda (come nell’ital. scena) e sonora (fr. jour)
· ts (intensa: tts), dz (ddz) = affricate dentali sorda (come nell’ital. zucca) e sonora (ital. zero)
· č, ǧ = affricate alveopalatali sorda (come nell’ital. cento) e sonora (ital. gente)
Avvertenze:
·
gli etimi latini sono riportati in maiuscoletto;
· solitamente, quando vengono proposti vocaboli sardi senza ulteriore specificazione, si tratta di forme del nuorese (o comunque dei dialetti centrali);
· il simbolo > significa «diventa, passa a»
§ 1. Max Leopold Wagner e la linguistica sarda.
Nella premessa alla ristampa anastatica della Storia della lingua di Roma di Giacomo Devoto apparsa nel 1983, Aldo Luigi Prosdocimi definiva l’opera riproposta «un classico», tale, a suo giudizio, anche «per chi giudica i libri col criterio dell’up to date o con la bilancia delle imprecisioni». L’obsolescenza è in effetti, fatalmente, destino comune alle opere di linguistica come a quelle scientifiche in generale, e ciò in conseguenza ovvia del fatto che acquisizioni più recenti nei dati e nelle metodologie implicano costantemente una revisione dei risultati delle ricerche condotte in precedenza. È perciò sempre una circostanza da rimarcare la presenza di lavori che, nonostante il trascorrere del tempo, mantengono inalterata la propria centralità in un àmbito disciplinare, continuando a proporre agli studiosi del settore nuclei problematici coi quali è ineludibile e proficuo confrontarsi: tale è appunto il caso, per la storia della lingua latina, dell’opera del Devoto ricordata qui sopra, e certamente altri esempi, forse più eloquenti, potrebbero essere addotti nella medesima linea di ragionamento.
Un fatto per certi versi ancora più significativo e, se si vuole, sorprendente si verifica nell’àmbito della linguistica sarda in relazione ai lavori di Max Leopold Wagner (Monaco di Baviera 1880 – Washington 1962), geniale linguista tedesco la cui produzione scientifica coprì un arco di più di un cinquantennio a cavallo fra l’inizio e gli anni Sessanta di questo secolo. Il Wagner, come è noto, è il fondatore della linguistica sarda: con la propria opera investigò gli aspetti più importanti dell’idioma isolano, dalla fonetica alla morfologia, dalla formazione delle parole al lessico, il tutto in prospettiva rigorosamente storica. A ragione si è potuto affermare che «raramente lo sviluppo delle conoscenze scientifiche su una lingua è legato in maniera così stretta alla figura di uno studioso come è accaduto per il sardo con Max Leopold Wagner» (G. Paulis). Ebbene, nonostante molti anni separino ormai dalle date in cui i suoi lavori videro la luce, è indubbio che la maggior parte di essi, accolti al loro apparire come capolavori, conservano ancora oggi molto più che il semplice interesse storico di documenti e rappresentano, al contrario, l’ossatura della migliore bibliografia scientifica sul sardo. È perciò in un certo senso doveroso, parlando della lingua sarda, e facendolo in una prospettiva storica, incominciare proprio rendendo omaggio alla straordinaria figura del Wagner.
§ 2. Il sardo, lingua romanza.
Il sardo è una lingua romanza o, si usa pure dire, neolatina, ossia una parlata che discende direttamente dal latino volgare, così come il portoghese, lo spagnolo, il catalano, l’occitanico, il franco‑provenzale, il francese, l’italiano, il ladino, il dalmatico (oggi estinto) e il rumeno che, adottando una metafora frequente negli studi glottologici ispirata alla parentela umana, possono essere definite ‘lingue sorelle’ in quanto riconducibili a una comune ‘lingua madre’. In termini più ampi, ciò significa in sostanza che nel lungo processo di formazione della lingua isolana, che si protrae sino ai giorni nostri, la conquista romana del 238 a.C. e la conseguente massiccia diffusione del latino rappresentano certamente l’episodio centrale e più importante, destinato a disegnare in profondità lo scheletro della lingua che comincerà a manifestarsi documentariamente dopo il 1000 d.C. Quando parliamo di scheletro di una lingua — è bene pure precisare — intendiamo riferirci in primo luogo alla compagine morfologica e al lessico di base, ossia a quell’insieme di parole che in un idioma si rinnova con maggiore difficoltà e che comunque viene sostituito con un ritmo più lento rispetto a quello con cui si modifica il resto del vocabolario (ne fanno parte, per es., i termini di parentela come quelli per «padre», «madre», «fratello» etc., i numerali, soprattutto i primi dieci, le parole che indicano le parti del corpo, il verbo per «essere» e altro ancora). Ebbene, se consideriamo questi elementi, che costituiscono una sorta di DNA delle lingue, non potrà esserci alcun dubbio sul fatto che il sardo discenda dal latino: anzi, utilizzando le parole del Wagner, si può affermare che «il sardo, come ci si presenta nei documenti antichi e come tuttora suona nelle regioni centrali e soprattutto nel Bittese e nel Nuorese, si può considerare, anche foneticamente, il continuatore più schietto del latino». Alla luce di questa circostanza, si comprende quale peso abbiano in generale i dati forniti dalla parlata isolana nella comparazione con quelli offerti dalle restanti lingue romanze, giacché testimoniano tutta una serie di fatti arcaici in molti casi decisivi per comprendere i processi di strutturazione dello spazio linguistico neolatino. Iniziamo allora a esaminare alcuni degli aspetti che il sardo ha ereditato — variamente modificandoli — dal latino e che contribuiscono, insieme a numerosi altri, a conferirgli la sua particolare fisionomia linguistica.
2.1. Fonetica: elementi del vocalismo. Fra i tratti che disegnano la peculiarità del sardo nel panorama delle lingue romanze, uno dei più significativi è certamente offerto dall’organizzazione del sistema vocalico. Si sa che il latino classico possedeva cinque vocali di timbro differente, ognuna delle quali poteva essere realizzata come breve oppure come lunga (sicché le vocali, in effetti, erano dieci): dunque, ă (= a breve), ā (= a lunga), ĕ (= e breve), ē (= e lunga), ĭ (= i breve), ī (= i lunga), ŏ (= o breve), ō (= o lunga), ŭ (= u breve), ū (= u lunga). La differenza quantitativa fra vocali dello stesso timbro aveva valore fonologico: in sostanza, così come in italiano avviene che parole di significato differente, per il resto uguali, si distinguano soltanto in base alla diversa quantità di una consonante (ossia per la presenza di una consonante breve oppure lunga: es. pala ~ palla, caro ~ carro, etc.), in latino analoghe opposizioni fonologiche si realizzavano sfruttando la diversa quantità vocalica: ad es. lătus «fianco» ~ lātus «largo», lĕvis «leggero» ~ lēvis «liscio», fŭgit «fugge» (presente) ~ fūgit «fuggì» (passato). Col passare del tempo, tuttavia, questo meccanismo che permetteva di utilizzare la quantità delle vocali per attuare distinzioni di significato si perse, probabilmente anche per il fatto che il latino, nella sua diffusione sempre crescente, fu parlato da popolazioni che impiegavano in origine lingue differenti e non furono in grado di acquisire perfettamente l’idioma dei Romani. In sostituzione delle vecchie opposizioni fondate sulla quantità vocalica, si affermò in generale un nuovo sistema che prevedeva che le vocali originariamente brevi fossero pronunciate più aperte delle vocali lunghe corrispondenti, realizzate pertanto più chiuse (dunque, per es., ĕ breve venne pronunciata come e aperta, ē come e chiusa). In particolare, se consideriamo il punto terminale di questo processo attraverso la testimonianza offerta dall’italiano (che riflette un’evoluzione affermatasi in gran parte delle lingue romanze), osserviamo, da un lato (per le vocali palatali), che in sillaba accentata ĕ breve latina si è evoluta in e aperta (che indichiamo in questo modo: è), mentre ē lunga ed ĭ breve hanno dato come esito comune e chiusa (= é): così, per es., dal lat. bĕne si ha l’ital. bène, mentre da acētu(m) e da pĭlu(m) si hanno acéto e pélo; sull’altro versante (quello delle vocali velari), vediamo che ŏ breve latina ha avuto per esito in italiano, sempre in sillaba tonica, o aperta (= ò), mentre ō lunga ed ŭ breve sono confluite in o chiusa (= ó): per es., dal lat. pŏrcu(m) deriva l’ital. pòrco, mentre da sōle(m) e da bŭcca(m) si hanno sóle e bócca.
Il sardo presenta tuttavia un’evoluzione diversa e caratteristica del vocalismo tonico latino, dal momento che vi si registra costantemente la confluenza in un esito unificato delle vocali brevi con le lunghe corrispondenti: così, per restare agli esempi portati in precedenza, dal lat. bĕne si ha in sd. bène, da acētu(m) si ha akétu (o aǥéđu o ažéđu, a seconda dei dialetti: ciò che importa qui è il vocalismo tonico, che permane identico) e da pĭlu(m) si ha pílu; inoltre da pŏrcu(m) si ottiene pórku (o prókku), da sōle(m) si ha sòle (o sòli), da bŭcca(m) è derivato búkka. In sostanza, la caratteristica essenziale del vocalismo sardoromanzo è il mantenimento dei timbri originari del latino dopo la perdita della quantità (si considerino soprattutto i casi esemplificati da pílu, a fronte dell’ital. pélo, e da búkka, a fronte dell’ital. bócca), fatto che normalmente viene interpretato nei termini di conservazione di un tratto arcaico della madrelingua.
Si deve inoltre porre in risalto che la presenza, in sillaba accentata, di è aperta (come nel caso di bène) o di é chiusa (come in quello di akétu), così come di ò aperta (sòle) o di ó chiusa (pórku) è un fatto che non dipende dall’originaria quantità latina della vocale interessata, ma da un meccanismo interno al sardo: accade infatti che e ed o toniche siano pronunciate automaticamente chiuse se nella sillaba seguente è presente una vocale di timbro i (béni «vieni!»; póḍḍine «fior di farina») od u (kéntu «cento»; bónu «buono»), oppure un’altra e od o chiusa per influsso di una i o di una u che seguono (ĝéneru «genero»; kómođu «comodo»); sono invece pronunciate aperte negli altri casi (kèra «cera», bène «bene»; bòna «buona», dòmo «casa»). Il fenomeno appena descritto, per il quale il timbro della vocale tonica è condizionato da quello delle vocali che seguono, prende il nome di metafonia o metafonesi ed è presente «in tutti i dialetti genuinamente sardi», come si esprimeva Max Leopold Wagner nella sua Fonetica storica del sardo.
È interessante anche rilevare che i
Sardi hanno da tempo piena coscienza della particolarità del vocalismo della
loro lingua nel rapporto con le altre parlate romanze, ossia (limitandoci qui a
portare a confronto l’italiano) di corrispondenze del tipo ital. pélo ~ sd. pílu, ital. néve ~ sd. níƀe, ital. bócca ~ sd. búkka, ital. cróce sd. rúke, etc.: succede così spesso che, quando si prendono in prestito
da altre lingue parole con é od ó chiusa in sillaba accentata, queste
vengano adattate modificandone il vocalismo in i od u secondo un
meccanismo proporzionale, come è accaduto per es. nel sd. tríttsa, tríčča «resta d’aglio, treccia dei capelli»,
mutuato dall’ital. tréccia, o in fríttsa dall’ital. fréccia, oppure in ampúlla
«bottiglia» dall’ital. ampolla (o dal
cat. ampolla), e in túrta dall’ital. tórta.
2.2. Fonetica: elementi del consonantismo. Venendo ora al consonantismo del sardoromanzo, nel segnalare alcune sue caratteristiche — che fra le tante selezionabili appaiono sia significative, sia sufficientemente piane a esporsi — indicheremo in primo luogo la situazione testimoniata dalle varietà più conservative, quelle cioè che meno si sono allontanate dal latino, segnatamente i dialetti centrali e il logudorese (corrispondenti, dal punto di vista geografico, alla Sardegna centro‑settentrionale, come vedremo meglio più avanti, al § 5.2), avvertendo sin d’ora che la varietà campidanese parlata nel meridione dell’isola mostra su diversi punti differenze più o meno sensibili per aver partecipato separatamente a innovazioni successive.
2.2.1.
Trattamento delle occlusive velari
davanti a vocale palatale. Nella nostra rassegna si può ricordare
inizialmente un importante fenomeno di conservazione, ossia il mantenimento
delle consonanti occlusive velari sorda e sonora (i foni che troviamo,
rispettivamente, nell’ital. casa
e gara) davanti a vocale
palatale (e, i), osservabile in generale nel sardo centro‑settentrionale:
dal lat. centu(m), ad es., si ha in sd. kéntu (che si confronta con
l’ital. cento, il fr. cent, lo sp. ciento,
il cat. cent etc.: REW 1816), oppure da cinque
si ha kímbe (in ital. cinque, in fr. cinq, in sp. cinco,
in cat. cinc etc.: REW 6964); così pure dal lat. generu(m) si ha il sd. ĝéneru (cfr. ital. genero, fr. gendre, sp. yerno, cat. gendre etc.: REW 3730), e da gelare si ha il sd. ĝelare (cfr. ital. gelare,
fr. geler, sp. helar,
cat. gelar etc.: REW 3714). È tuttavia differente la situazione che si
osserva oggi in campidanese, ove si sono affermati dopo il Mille, per
imitazione della pronuncia toscana, degli esiti che sono il frutto di quello
che, in termini tecnici, si definisce un processo di palatalizzazione (si
registra in sostanza il passaggio a un’articolazione più avanzata, di tipo
palatale): la forma per «cento» è qui infatti čéntu, per «cinque» si ha čínku, mentre per «genero»
si ha ǧén(n)eru e per «gelare» ǧelai.
2.2.2. Le occlusive sorde intervocaliche. Un’altra caratteristica estremamente conservativa del consonantismo sardo, testimoniata oggi soltanto dai dialetti centrali (specialmente quelli della Baronia e del Bittese, nella regione centro‑orientale dell’isola), è il mantenimento delle occlusive sorde bilabiale, dentale e velare (‑p‑, ‑t‑, ‑k‑) in posizione intervocalica: in queste parlate, per fare alcuni esempi, dal lat. cupa(m) si ha kúpa «bótte», da ape(m) ápe «ape», da rota(m) ròta «ruota», da catena(m) katèna «catena», da locu(m) lóku «luogo», da secare sekare «tagliare, rompere».
I restanti dialetti sardi, ossia il
logudorese e il campidanese, mostrano a questo riguardo una situazione meno
conservativa, giacché si registra in essi il passaggio delle occlusive sorde –p‑, ‑t‑, ‑k‑
fra vocali a un’articolazione meno energica (pertanto, per indicare questo
processo di indebolimento, si parla in generale di lenizione): rispettivamente, dunque, hanno per esito ‑ƀ‑, ‑đ‑, ‑ǥ‑, spiranti sonore
bilabiale, dentale e velare, realizzate senza che gli organi fonatori
interessati (ad es., le labbra, nel caso di ƀ)
blocchino completamente l’aria espiratoria, lasciandola anzi defluire verso
l’esterno attraverso uno stretto canale (a questo si unisce inoltre la
vibrazione delle corde vocali, che conferisce a questi foni il carattere della
sonorità, assente nei foni sordi). Restando dunque agli esempi portati in
precedenza, alla forma kúpa
dei dialetti centrali corrispondono il log. e il camp. kúƀa (con ƀ
simile alla realizzazione che troviamo nella parola sp. per «lupo», lobo), ad ápe il log. áƀe
e il camp. áƀi, a ròta corrispondono il log. ròđa e il camp. arròđa, orròđa
(con đ simile alla realizzazione
che troviamo nello sp. lado
«lato»), a katèna il log. e il
camp. kađèna, a lóku corrispondono il log. e il
camp. lóǥu (con ǥ confrontabile alla realizzazione
che troviamo nello sp. negar
«negare») e infine a sekare il
log. seǥare e il camp. seǥai.
2.2.3. Le occlusive sonore intervocaliche. Per quanto riguarda il trattamento delle occlusive sonore in posizione intervocalica, va ancora una volta sottolineato che la situazione più conservativa è offerta dai dialetti centrali, nei quali si osserva in generale il passaggio di questi foni a spiranti sonore dello stesso luogo di articolazione: pertanto, esemplificando, dal lat. cubare, pede(m), ego si hanno, rispettivamente, kuƀare «nascondere», pèđe «piede», èǥo, dèǥo «io». In logudorese e in campidanese, invece, il processo di lenizione qui descritto è giunto, di norma, sino al dileguo delle consonanti interessate, sicché le forme corrispondenti sono, per «nascondere», il log. kuare e il camp. kuai, akkuai, per «piede» il log. pèe, pè e il camp. pèi, per «io» il log. èo, dèo e il camp. dèu.
Riepilogando e riassumendo in un comodo schema una situazione che nella realtà, stanti anche i rapporti e le reciproche influenze fra i vari dialetti, è assai più sfumata e frantumata, possiamo dire che il trattamento delle occlusive intervocaliche in sardo è il seguente:
dialetti centro‑orientali: ‑p‑, ‑t‑, ‑k‑ > ‑p‑, ‑t‑, ‑k‑ (= conservazione)
‑b‑, ‑d‑, ‑g‑ > ‑ƀ‑, ‑đ‑, ‑ǥ‑ (= danno spiranti sonore)
dialetti periferici: ‑p‑, ‑t‑, ‑k‑ > ‑ƀ‑, ‑đ‑, ‑ǥ‑ (= danno spiranti sonore)
‑b‑,
‑d‑, ‑g‑ > Ø (= zero, dileguo)
2.2.4. Trattamento delle labiovelari. Infine, per chiudere col consonantismo, descriviamo brevemente il trattamento in sardo delle consonanti labiovelari latine, ossia dei foni che si incontrano, per es., nel lat. quattuor «quattro», aqua «acqua» (labiovelare sorda), o in anguilla «anguilla» e in lingua «lingua» (labiovelare sonora): in sardo hanno come esito b(b), occlusiva bilabiale sonora (eventualmente lunga), sicché nelle varietà centro‑settentrionali le forme per «quattro», «acqua», «anguilla» e «lingua» sono, rispettivamente, báttoro, ábba, ambíḍḍa e límba (si veda anche la forma per «cinque», kímbe, data in precedenza).
Differente, tuttavia, è la situazione
offerta dal campidanese, ove si registrano degli esiti di tipo italiano che si
sono affermati durante la dominazione pisana: per «quattro» si ha infatti kwátturu, kwáttru, per
«acqua» ákwa, per «anguilla» angwíḍḍa e per
«lingua» língwa. Anche in
questa varietà, va però precisato, vi è traccia degli esiti più antichi in
parole del lessico rustico che non avevano corrispondenza in toscano, per es.
in silíbba «carruba», che
proviene dal lat. siliqua(m).
2.3. Cenni di morfologia. Venendo ora alla morfologia, occorre sùbito notare che anche in questo settore (meglio: soprattutto in questo settore) il sardo conserva chiarissima l’impronta di lingua romanza, mostrando numerosi tratti che lo ricollegano a una latinità di tipo arcaico. Dal momento che si ha a che fare con una materia vastissima, difficilmente compendiabile in un breve spazio, cercheremo anche in questa occasione di indicare alcuni fatti che appaiono particolarmente significativi, rinviando per il resto ai testi citati in bibliografia. I dialetti ai quali faremo principalmente riferimento nella scelta degli esempi sono sempre quelli centrali, in particolare il nuorese.
2.3.1. Morfologia nominale. Per quanto concerne la formazione dell’articolo determinativo, esso procede dal lat. ipsu(m), ipsa(m), ipsos, ipsas, diversamente da ciò che accade nelle restanti lingue romanze, ove il punto di partenza è, generalmente, illu(m): l’articolo determinativo sardo è pertanto su (es.: su káne «il cane»), sa (es.: sa kròka «la chiocciola»), pl. sos (sos kánes «i cani»), sas (sas kròkas «le chiocciole»). Parzialmente differente è la situazione in campidanese, ove al plurale si ha, tanto al maschile come al femminile, is: dunque, ad es., is kartsònis «i calzoni», iṡ míǧas «le calze».
Per quanto riguarda la flessione dei sostantivi, la formazione del plurale avviene attraverso l’impiego del morfema consonantico –s: dunque, per fare alcuni esempi, sg. bákka «vacca» ~ pl. bákkas «vacche», sg. kaƀáḍḍu «cavallo» ~ pl. kaƀáḍḍos «cavalli», sg. pèđe «piede» ~ pl. pèđes «piedi», sg. banduléri «vagabondo» ~ pl. banduléris «vagabondi», etc. Dal punto di vista storico, è interessante notare che questa modalità di formazione del plurale accomuna il sardo alle lingue romanze occidentali, ad es. lo spagnolo, ove a singolari tipo cabra «capra» rispondono plurali tipo cabras «capre», o il francese, con chèvre ~ chèvres, etc. Si osservi infine, riguardo a quest’argomento, che i primi segni della situazione descritta si intravedono in Sardegna già in epigrafi di età romana, nelle quali si hanno nominativi plurali del tipo FILIAS (per il classico filiae) e PATRONAS (per patronae).
Per quanto concerne gli aggettivi, segnaliamo soltanto che essi formano il comparativo per mezzo di prus (dal lat. plus): es. gráve «pesante», prur gráve «più pesante».
2.3.2. Morfologia verbale. Nel sistema del verbo si assiste alla riduzione delle quattro coniugazioni latine (in –āre, ‑ēre, ‑ĕre, ‑īre) a tre, rispettivamente con infinito in ‑áre (kantáre, da cantare), ‑ere (kúrrere, da currĕre, e tímere da timēre: come si vede da quest’ultimo esempio, in sardo la seconda coniugazione latina si è persa a vantaggio della terza) e –íre (finíre, da finire). All’interno della situazione descritta si registra tutta una serie di fenomeni di estremo interesse, come la conservazione di autentici relitti morfologici: così, per citarne un paio, mentre nelle restanti lingue romanze pare non esservi traccia del lat. fugĕre ma soltanto di fugīre (cfr. ital. fuggire, fr. fuir, sp. huir, cat. fugir, etc.: REW 3550), che è forma più recente, a Bitti (la località nel centro della Sardegna che il Wagner definiva «il palladio dell’arcaicità») per «fuggire» si ha fúǥere; in sardo, inoltre, l’imperfetto congiuntivo deriva direttamente da quello latino (es.: kantáret, fakèret, dormíret), mentre le restanti lingue romanze mostrano di averlo sostituito col piuccheperfetto (cfr. ital. cantassi, corressi, udissi).
Forniamo ora di séguito la coniugazione del presente indicativo dei verbi èssere «essere», áere «avere», kantáre «cantare», fákere «fare», dormíre «dormire» (per maggiori dettagli rimandiamo alla Grammatica del sardo‑nuorese di M. Pittau citata in bibliografia):
èssere «essere»
(dèǥo) sòe «sono» (nóis) sémus «siamo»
(túe) sès «sei» (bóis) sédzis «siete»
(íssu) èst «è» (íssos) sún «sono»
áere «avere»
(dèǥo) áppo «ho» (nóis) ámus «abbiamo»
(túe) ás «hai» (bóis) ádzes «avete»
(íssu) át «ha» (íssos) án «hanno»
kantáre «cantare»
(dèǥo) kánto «canto» (nóis) kantámus «cantiamo»
(túe) kántas «canti» (bóis) kantáes «cantate»
(íssu) kántat «canta» (íssos) kántan «cantano»
fákere «fare»
(dèǥo) fáko «faccio» (nóis)
fakímus «facciamo»
(túe) fákes «fai» (bóis)
fakíes «fate»
(íssu) fáket «fa» (íssos)
fáken «fanno»
dormíre
«dormire»
(dèǥo) dòrmo «dormo» (nóis)
dormímus «dormiamo»
(túe)
dórmis «dormi» (bóis)
dormíes «dormite»
(íssu)
dórmit «dorme» (íssos)
dórmin «dormono»
2.4. Il fondo latino del lessico sardo. Come si accennava in precedenza, anche l’analisi del lessico fondamentale permette di cogliere con facilità il carattere romanzo del sardo: infatti, anche ipotizzando per un momento che niente ci fosse noto del latino (la ‘lingua madre’ unitaria, che per altre ‘famiglie linguistiche’, come quella germanica, non è conosciuta attraverso testimonianze scritte), le corrispondenze nel lessico fondamentale — oltreché, più importanti, nella morfologia — fra il sardo e le altre lingue neolatine risulterebbero tanto numerose e pervasive da non potersi spiegare con la casualità o con fenomeni di imprestito, ma solamente pensando alla continuazione di forme identiche ereditate da una comune madrelingua e continuate secondo sviluppi fonetici particolari. Vediamo qui di séguito alcuni esempi:
· lat. patre(m) > sd. pátre (nel sardo antico, oggi si usa bábbu; cfr. ital. padre, sp. padre, etc.: REW 6289);
· lat. matre(m) > sd. mátre (nel sardo antico, oggi si usa máma; cfr. ital. madre, sp. madre, etc.: REW 5406);
·
lat. homo, homine(m) > sd. ómine (cfr. ital. uomo, sp. hombre, etc.: REW
4170);
·
lat. manu(m) > sd. mánu (cfr. ital. mano,
sp. mano, etc.: REW 5339);
·
lat. dente(m) > sd. dènte (cfr. ital. dente,
sp. diente, etc.: REW
2556);
·
lat. duo > sd. dúos, dúas (cfr. ital. due,
sp. dos, etc.: REW
2798);
·
lat. tres > sd. très (cfr. ital. tre, sp.
tres, etc.: REW 8883);
·
lat. esse, essere > sd. èssere (cfr. ital. essere, cat. ésser, etc.:
REW 2917);
·
lat. vivere
> sd. bívere, vívere (cfr. ital. vivere, sp. vivir, etc.: REW 9411).
Nonostante le varie dominazioni avvicendatesi nell’isola, con le loro lingue (quasi sempre romanze), abbiano rinnovato in buona misura l’originaria compagine latina del lessico sardo, come mostreremo meglio più avanti parlando dei superstrati linguistici (§ 4), esempi come quelli appena portati illustrano bene la persistenza di un nucleo centrale di vocaboli in cui spesso si concentrano «i segni di maggiore salienza cognitiva e culturale» della civiltà isolana (impieghiamo parole di G. R. Cardona).
§ 3. Il sostrato linguistico prelatino.
Quando nel 238 a.C. il latino, al séguito dei Romani, giunse in Sardegna, qui si parlavano già altri idiomi, oggi non sopravvissuti, che furono come sommersi dalla nuova ondata linguistica, destinata col tempo ad affermarsi e a costituire l’ossatura della futura lingua romanza del luogo: è in riferimento a tali idiomi preesistenti al latino che impieghiamo il termine sostrato. Un primo fatto da chiarire, in termini generali, è che una lingua di sostrato tende a lasciare una qualche traccia di sé, a riaffiorare in misura più o meno sensibile nella nuova lingua che si sovrappone su di essa: si può anzi affermare che una delle ragioni per le quali le lingue romanze, pur procedendo da un’identica matrice, si sono differenziate nei termini oggi osservabili è offerta dai diversi sostrati linguistici incontrati dal latino nella sua diffusione nelle varie regioni.
Venendo ora al sardo, ove gli studi tesi a indagare le più antiche fasi linguistiche hanno trovato un terreno particolarmente fertile, i glottologi hanno isolato nel corso del tempo una serie di elementi che, non attribuibili al latino né alle parlate successivamente approdate nell’isola (per le quali si veda il § 4), vanno ascritti, con gradi differenti di probabilità, alle lingue del sostrato preromano: fra queste ultime occorrerà in prima istanza distinguere gli idiomi noti da quelli di cui invece si ignora pressoché tutto.
3.1. Il sostrato punico. A partire dall’VIII sec. a.C. la Sardegna registrò la frequentazione fenicia, con la connessa creazione di colonie e fondachi (Karales, Nora, Bitia, Sulci, Tharros, Othoca), e sul finire del VI sec. a.C. subì l’arrivo dei Cartaginesi, la cui presenza, protrattasi sino all’occupazione romana, appare rilevante soprattutto nelle regioni costiere. Dal punto di vista linguistico l’influsso punico appare oggi piuttosto limitato, come è stato appurato dalle indagini di Max Leopold Wagner, di Vittorio Bertoldi e, in tempi più recenti, di Giulio Paulis: disponiamo infatti di una manciata di vocaboli di sicuro etimo punico, ai quali va sommato un numero altrettanto esiguo di toponimi. Riguardo ai primi, ricordiamo le voci míttsa «sorgente», tsikkiría «sorta di aneto simile al finocchio», tsíppiri «rosmarino», tséurra, tseúrra «germe, germoglio, pollone», tutte diffuse nell’area campidanese (ove la presenza punica appare anche dalla documentazione archeologica più intensa che non altrove), e l’altro fitonimo kúrma, kúruma «ruta», attestato nella Baronia e nel Nuorese.
Parlando invece di toponimi, in generale è bene tenere a mente due fatti: il primo è che i nomi di luogo di una regione hanno una spiccata tendenza a conservarsi, nonostante nel volgere del tempo sulla medesima regione si affaccino popoli, lingue e culture diverse. Si verifica cioè di frequente nel corso della storia che una popolazione si stanzi in una certa località e denomini i luoghi con termini del proprio idioma; può accadere che più tardi subentrino genti di lingua e cultura differenti, che però conservano, almeno in parte, i nomi in precedenza assegnati ai luoghi, e così via. I toponimi sono quindi come dei fossili, dei testimoni preziosi degli strati etnico‑linguistici che si sono avvicendati nel tempo in una data regione (per es.: Milano, più anticamente Mediolanum, è adattato da una formazione celtica, e precisamente gallica, composta con medio‑ «in mezzo», corrispondente al lat. medius, e ‑lanum «pianura», corrispondente al lat. planum, con la perdita di p‑ caratteristica del celtico; si sa infatti che Milano è una fondazione dei Galli Insubri). Il secondo fatto da tenere a mente è che i toponimi, quando vengono assegnati, hanno un significato (tipo Castagneto, Fiumefreddo, Montenero, etc.), che poi col tempo, con l’evolversi e il mutare delle lingue, si perde: si dice allora che il toponimo è divenuto opaco, cioè non è più di significato trasparente come i normali termini del lessico. Qui entrano in gioco i glottologi, che tentano di recuperare quel significato attraverso lo studio delle lingue che anticamente si sono succedute in una stessa regione (lo si è visto in pratica per Milano).
Tornando alla Sardegna, lo studio della toponimia dell’isola rivela sporadicamente tracce della presenza punica: ricordiamo a questo proposito il caso di Macumadas (in territorio di Núoro), Magomadas (vicino a Bosa), Magumadas (a Gesico e a Nureci), dal punico maqom hadash «città nuova», col primo elemento presente anche in Macomèr.
3.2. Il sostrato paleosardo. Evitando qui anche solo di accennare alle questioni connesse all’esistenza di uno strato linguistico greco antico, la cui identificazione appare assai problematica e controversa, consideriamo ora la situazione preesistente in Sardegna all’arrivo dei Fenici, dei Punici e dei Romani. Si tratta di un settore di studi fra i più complessi, giacché, ignorandosi pressoché tutto delle lingue più anticamente parlate nell’isola (manca, in particolare, ogni documentazione scritta), i glottologi devono procedere all’identificazione di quegli elementi del lessico, della fonetica e della toponimia sarda attuali che, non potendosi spiegare alla luce di lingue note, vanno ascritti, con un procedimento puramente negativo, al fondo linguistico più antico, sulla cui composizione si possono solamente formulare ipotesi più o meno plausibili.
Incominciando dal lessico, resti del sostrato paleosardo si identificano più copiosi fra i vocaboli che indicano formazioni geomorfologiche, piante e animali: per dare un’idea, fra i primi si possono ricordare parole quali il camp. ǧára, che designa altipiani basaltici e granitici (come la Giara di Gesturi, a sud di Oristano), oppure il barb. e camp. bák(k)u, ák(k)u che significa «valle, forra, sella fra due montagne, gola montana» (anche nella toponimia: Bacu Abis, vicino a Carbonia), o ancora tevèle, tèle, che nelle parlate centrali indica un terreno dirupato e boscoso preparato per la coltivazione attraverso la debbiatura; fra i fitonimi menzioniamo il nuor. thinníǥa, log. tinnía, camp. tsinníǥa «sparto», éni, la denominazione del tasso in Ogliastra, a Orgòsolo e a Dorgali, e ancora il centr. athánda, thánda, thránda, tsántsa «papavero selvatico»; fra i nomi degli animali, infine, si può ricordare il tipo assíle, kassíle, grassíƀile, grassíle e simm., impiegato in logudorese e in campidanese settentrionale per indicare la martora; ancora, la denominazione thurunkròne, thilingròne, tilingròne, (at)tilinǧòne, tsiringòne, sittsiringòni e simm. presente in logudorese e campidanese per il lombrico, oppure la voce centr. e log. gròḍḍe, lòḍḍe per «volpe».
Non sono mancati, peraltro, tentativi di sondare meglio la composizione del sostrato paleosardo, cercando anche un collegamento con la sostanza storica eventualmente presente nei racconti mitologici riguardanti l’isola tramandati dagli scrittori antichi. Si sono così ottenuti risultati incoraggianti nell’individuazione di una componente ‘iberica’, attraverso la comparazione effettuabile in alcuni casi fra relitti linguistici paleosardi e relitti ‘iberici’ presenti nel basco (lingua non indoeuropea parlata nel nord‑est della Spagna e nel sud‑ovest della Francia): in questa direzione di ricerca, particolarmente significativa è la voce campidanese bèǥa «valle acquitrinosa», che «insieme al castigliano vega e al portoghese, gallego veiga… risale a (terra) (i)baika ‘terreno irriguo, che si trova nei pressi di un corso d’acqua’, da ibai ‘fiume’ (ancora oggi la parola basca suona così), più il suffisso ‑ko, ‑ka esprimente come in basco la pertinenza» (G. Paulis). Il dato storico‑linguistico più notevole, tuttavia, è che questo vocabolo trova diffusione nel sud‑ovest dell’isola, proprio laddove il racconto mitologico segnala l’approdo di Norace, il fondatore di Nora, proveniente da Tartesso alla testa di una schiera di coloni iberici.
Un’altra componente del sostrato linguistico isolano che pare delinearsi con una qualche chiarezza è quella libica, identificabile attraverso una serie di congruenze che connettono il paleosardo ai dialetti berberi parlati nel nord Africa, che dell’antica lingua libica sono i continuatori: così, per portare uno degli esempi più significativi, già il Wagner aveva segnalato che numerosi termini sardi che indicano piccoli animali iniziano con la sillaba tha‑, ta‑, tsa‑, thi‑, ti‑, tsi‑, thu‑, tu‑, tsu‑, come ad es. thilikèrta, tiliǥèrta, tsiliǥèrta e simm. «lucertola» (si osservi che nel secondo elemento si riconosce il lat. lacerta(m)), thilikúkku, tiliǥúǥu, tsiliǥúǥu e simm. che indica talora il geco, talora il lumacone nudo, thilipírke, tilipírke, tsilibrílke e simm. «cavalletta», e altri ancora (si veda anche la denominazione del lombrico, data in precedenza). Ebbene, si a che fare in questi casi con un antico prefisso che si confronta col prefisso (e suffisso) t (in molti dialetti th) che in berbero serve a specificare il genere femminile (es. izem «leone», t‑izem‑t «leonessa»).
Non ci soffermiamo qui a ricordare le proposte del Wagner tese a individuare nelle parlate sarde, e in particolare in quelle centrali, la conservazione di abitudini fonetiche ereditate dalle lingue del sostrato (in questi termini si inquadrerebbero, secondo il grande linguista tedesco, fenomeni quali l’avversione a –f‑ nei dialetti interni; la prostesi vocalica davanti a r‑ nelle parlate meridionali, sulla quale si dirà qualcosa più avanti, nella sezione dedicata alla partizione dialettale del sardo; la tendenza alle articolazioni alveolari; lo sviluppo di suoni cacuminali; il colpo di glottide che compare in diversi dialetti come esito di ‑k‑, ‑l‑ e –n‑): recenti critiche formulate in relazione a tali proposte ne rendono infatti consigliabile una valutazione prudente.
Si presta invece a considerazioni interessanti il ricco e variegato tesoro toponimico dell’isola, in particolare, ancora una volta, quello delle regioni centrali: in un recente studio condotto sui nomi di luogo dei comuni di Fonni, Gavoi, Lodine, Mamoiada, Olìena, Ollolai, Olzai, Orgòsolo e Ovodda, Heinz Jürgen Wolf ha messo in evidenza che, mentre nelle restanti regioni della Romània la percentuale di microtoponimi — quei nomi, cioè, che in una certa località vengono attribuiti alle proprietà e alle formazioni geomorfologiche e sono conosciuti, di norma, soltanto dagli abitanti della località stessa — di origine prelatina non raggiunge generalmente l’1% e comunque non si spinge quasi mai oltre il 2%, nel centro montagnoso della Sardegna si arriva in alcuni casi, come quello di Olzai, a oltre il 50%, ciò che costituisce un dato eccezionale e conferma l’interesse di questa regione arcaicissima della Sardegna nello studio delle più antiche fasi linguistiche. Il limite quasi sempre invalicabile connesso ad analisi di questo tipo è che si possono sì isolare dei macro‑ e dei microtoponimi ascrivibili al sostrato paleosardo, ma non si riesce a ricostruire il significato di cui essi in origine dovevano essere portatori, proprio perché, come si è messo più volte in risalto, non si sa pressoché nulla delle lingue antichissime che li espressero. Anche in questa caso, tuttavia, esistono delle eccezioni per il fatto che l’attuale lingua sarda, in alcune circostanze fortunate, conserva nel suo lessico comune gli appellativi che hanno dato origine ai nomi di luogo: così, per es., proprio a Orgosòlo sopravvive la voce preromana orgòṡa «luogo umido, acquitrinoso», da cui appunto il nome del paese è stato ricavato; così pure nei dialetti meridionali si trova il fitonimo úrtsula, urtsúla «smilace», attribuibile al sostrato paleosardo e alla base del toponimo Urzuléi.
§ 4. Le lingue di superstrato.
Nel 456 d.C. la Sardegna, ormai completamente latinizzata, fu occupata dai Vandali: da questo momento in poi subirà una sequela di dominazioni straniere, che tuttavia non avranno per conseguenza l’imposizione completa e duratura delle rispettive lingue o di almeno una di esse, come era accaduto in precedenza coi Romani, ma più semplicemente provocheranno l’accoglimento da parte dell’idioma locale di una serie cospicua di elementi esterni, destinati in ogni caso a non alterarne in profondità l’originario scheletro latino più antico. In generale, per indicare uno strato linguistico che in séguito a eventi storici diversi (ad es.: invasioni, colonizzazioni, influssi culturali) si sovrappone a un idioma già in uso in una determinata area, provocando in esso una serie di mutamenti di ordine fonetico, talvolta morfosintattico ma soprattutto lessicale, si impiega in linguistica storica il termine superstrato: una causa invocata dagli studiosi per spiegare il diverso sviluppo assunto dalle lingue romanze nelle varie località — che si aggiunge a quella costituita dalle differenti condizioni di sostrato incontrate dal latino, come abbiamo già accennato — è data appunto dai differenti superstrati che su di esse si posarono e interagirono nel corso del tempo.
4.1. I superstrati vandalico e bizantino. I Vandali, popolazione germanica sul cui idioma sappiamo pochissimo, assoggettarono l’isola dal 456 al 534 d.C.: ciò di cui siamo certi, in ogni caso, è che nel sardo attuale non compaiono tracce dirette di un superstrato linguistico germanico. È bene tuttavia ricordare che durante la dominazione vandalica (così come nella successiva età bizantina) la Sardegna fu unita amministrativamente all’Africa e incrementò in misura sensibile i contatti con la cristianità di quella regione, della quale accolse anche eminenti rappresentanti costretti all’esilio dai sovrani vandali, difensori dell’arianesimo: alla luce di questi fatti si può ritenere che l’età vandalica abbia favorito in Sardegna l’influenza di modelli linguistici latini di ascendenza nordafricana, determinando in alcuni casi l’avvio di particolari fenomeni fonetici, morfologici e lessicali, fra i quali ci limitiamo a ricordare l’assunzione di i‑ prostetica davanti a s‑ impuro (fenomeno del quale si accennerà al § 5.2).
Nel 534 d.C. la Sardegna entrò a far
parte dell’esarcato africano di Bisanzio. Dal punto di vista linguistico il
Wagner, errando, era propenso a ritenere l’influsso bizantino sul sardo tutto
sommato modesto, in ogni caso limitato alle sfere amministrativa ed
ecclesiastica, e ciò per il condizionamento negativo esercitato su di lui da un
difetto nella ricostruzione del panorama storico e culturale dell’epoca: in
sostanza, sino a non molto tempo fa si tendeva a studiare e a porre in primo
piano soprattutto certi aspetti della dominazione bizantina nell’isola,
precisamente gli aspetti ‘ufficiali’, salvo poi generalizzare le conclusioni
ricavate da tali ricerche e avvalorare l’idea di una presenza dei nuovi
dominatori piuttosto ‘leggera’, in grado di esprimere sulla cultura sarda
solamente un influsso di tipo curiale ed aulico, ristretto agli ambienti
elevati della chiesa e dell’amministrazione imperiale. Si comprende in
conseguenza l’atteggiamento del Wagner, cui si accennava in precedenza: nella
sua indagine, il linguista tedesco era favorevole a riconoscere la provenienza
al sardo dal superstrato medioellenico esclusivamente di termini del lessico
ufficiale (tipo cavallare «cavaliere», dal gr. biz. kaballáris, kondáke, kondáǥe
«registro di atti giuridici», dal gr. biz. kontáki(on),
etc.) e religioso (tipo munistere,
muristere, muristeri «monastero», dal lat. *monisteriu(m) incrociato col gr. biz. monastéri; in questo settore si può citare anche il caso di Sant’Avendrace, denominazione di un
quartiere di Cagliari, con l’agionimo riconducibile al gr. biz. Euandráki(on), pronunciato evandráki, da cui, con metatesi, avendráki e infine l’odierno Avendrace).
È merito speciale di uno studioso
sardo, Giulio Paulis (cui si deve anche l’etimologia di Avendrace appena esposta), quello di aver messo in evidenza,
attraverso gli strumenti dell’analisi linguistica, la maggiore articolazione e
profondità dell’influsso bizantino in Sardegna, allargando la considerazione,
in precedenza ristretta soprattutto all’àmbito della corte e della chiesa, alla
vita quotidiana, alle strutture sociali ed economiche e alla cultura materiale.
Il risultato di tale mutato atteggiamento nella ricerca si è concretizzato
nell’identificazione di un più consistente e variegato apporto al lessico sardo
da parte del superstrato bizantino, al quale vanno ascritte voci quali il camp.
ĝi̯áni
«morello (detto del manto dei cavalli e dei buoi)», il log. iskontri̯are
«dilombarsi, sfibrare (detto del cavallo)», «fiaccarsi, rimbambire (detto
dell’uomo)», il log. kèra óƀiđa,
camp. čèra óƀiđa
«propoli», il verbo annakkare
«cullare», attestato a Baunei, il log. e camp. lèppa «coltello a serramanico», il log. sett. elóǥu «vaiolo», e altre ancora.
4.2. Il superstrato italiano. Allentatisi progressivamente i legami con Bisanzio in séguito all’espansione islamica nel Mediterraneo, tra il IX e il X sec. sorsero nell’isola, nel vuoto di potere creatosi, i quattro giudicati di Gallura, di Cagliari, d’Arborea e di Torres, vere e proprie entità statali autonome. A partire dall’inizio del Mille, poi, iniziò la progressiva penetrazione commerciale e politica di Genova e di Pisa in Sardegna, inizialmente attraverso enti ecclesiastici legati alle due repubbliche marinare e per l’iniziativa di casati nobiliari, in séguito anche in modo più diretto, sicché, in definitiva, furono numerosi i cittadini di esse che si trasferirono nell’isola ottenendo privilegi di vario tipo: in particolare, l’ingerenza pisana si affermò più decisamente nei giudicati di Cagliari e di Gallura, mentre nel giudicato di Torres il predominio genovese fu in progresso di tempo più netto, specialmente nella città di Sassari; una posizione in generale più autonoma, seppure fra alterne pressioni, seppe invece conservare il giudicato di Arborea.
La conseguenza linguistica più evidente delle vicende storico‑politiche appena ripercorse per grandi linee fu la penetrazione nel sardo di un numero considerevole di voci italiane antiche, come si riscontra in alcuni casi già nei primi documenti dell’XI sec. Avvertendo che nel passaggio al sardo esse hanno subìto una serie di adattamenti alla fonetica locale, segnaliamo, fra le altre, il log. béttsu, camp. béčču «vecchio»; il log. e camp. ǧóvanu «giovane» (tosc. ant. giovano); il log. abbaiđare «guardare» (ital. ant. (a)guaitare); il log. attsivire, camp. aččiviri «preparare, provvedere di, fornire» (ital. ant. accivire); il log. sett. indzuldzare, indzundzare e simm. «ingiuriare» (tosc. ant. ingiulia); il centr. manikare, log. sett. maniǥare «mangiare» (ital. ant. manicare); il log. virgòndza, birgòndza, camp. briǥúnǧa «vergogna»; il log. čáffu, tsáffu «schiaffo» (tosc. ant. ciaffo); il log. ánku, camp. ánki «che» in frasi che esprimono augurio o malaugurio (tosc. ant. anco); il log. barréḍḍu «fardellino dei ragazzi», camp. rust. orréḍḍu «gonnella bianca di tela» (ital. ant. guarnello), etc.
L’influsso pisano, inoltre, fu particolarmente incisivo nel meridione dell’isola, dove modificò in modo sensibile la veste fonetica del campidanese, che proprio a partire da questo periodo cominciò ad assumere una serie di tratti distintivi rispetto alle parlate logudoresi: già in precedenza (ai §§ 2.2.1 e 2.2.4) si è segnalato come per imitazione della pronuncia toscana si affermarono, dapprima a Cagliari e poi più ampiamente in tutta la regione meridionale, esiti del tipo čínku, čéntu (a fronte delle forme logudoresi corrispondenti kímbe, kéntu, in cui si ha il mantenimento dell’occlusiva velare davanti a vocale palatale), e ákwa, língwa (a fronte di log. ábba, límba, con la risoluzione labiale delle labiovelari latine). Più avanti (al § 5.1) si avrà inoltre modo di accennare al ruolo svolto dall’influsso toscano e genovese nel determinare la particolare fisionomia assunta dal logudorese settentrionale e dai dialetti gallurese e sassarese, considerati, questi ultimi, non sardi.
Infine, va segnalato che l’influsso italiano, stemperatosi durante il periodo catalano‑aragonese e spagnolo, è ripreso intenso dopo che, nel 1720, la Sardegna è passata ai Piemontesi e in séguito è divenuta parte dello Stato italiano: in particolare, l’apertura verso l’esterno imposta dall’esperienza delle due guerre mondiali, il servizio militare obbligatorio (svolto spesso in caserme del continente), la creazione di una rete stradale che ha in parte annullato l’antico isolamento delle regioni centrali, la scolarizzazione di massa e la diffusione capillare sul territorio dei mezzi di informazione nazionale hanno fatto sì che la conoscenza dell’italiano si diffondesse in misura massiccia, tanto che oggi è l’italiano e non il sardo la lingua materna di numerosi giovani. Il risultato delle vicende sommariamente descritte è sintetizzabile in un apporto lessicale dal continente sempre crescente, che si realizza non solo in quei settori del vocabolario che vanno a rappresentare le nuove tecnologie, le nuove realtà sociali, politiche, economiche (sicché si incontrano nei più recenti dizionari del sardo termini come trattòre, autocráve, púlma, eletròne, parlaméntu, universidáde, cóntu currènte, sintássi, termómetru e via dicendo), ma anche rinnovando, attraverso processi più o meno graduali, porzioni di lessico già esistenti (per fare un esempio: è difficile sentire, per «avvenire, succedere», akkontèssere, akkontèssiri, dallo sp. acontecer, o akkaèssere, akkađèssiri, dallo sp. acaecer, incrociato con accadere nella forma campidanese, mentre tende a prevalere l’italianismo suttsèdere, suttsèdiri, suččèdiri). A ciò si sommano l’alterazione di antichissime abitudini fonetiche (ad es.: nelle giovani generazioni si rileva spesso la perdita delle articolazioni cacuminali, sostituite da realizzazioni dentali imitate dall’italiano, cosicché la parola per «gallo» si pronuncia sempre più púddu e sempre meno púḍḍu) e gli influssi sulla sintassi (l’ordine delle parole), mentre la morfologia si dimostra più stabile.
4.3. Il superstrato catalano e spagnolo. Nel 1323 un corpo di spedizione guidato dall’infante Alfonso, figlio di Giacomo II d’Aragona, sbarcò in Sardegna, accadimento che può essere considerato l’atto iniziale di un nuovo periodo della storia sarda che vide l’isola, sino al 1720, soggetta in modo pressoché ininterrotto dapprima al dominio catalano‑aragonese e poi a quello spagnolo. Dal punto di vista linguistico, queste vicende hanno lasciato un’impronta profondissima nella fisionomia del sardo, basti pensare che Max Leopold Wagner poteva scrivere cinquant’anni fa che, fra tutti i superstrati che hanno partecipato alla formazione della parlata isolana, quello iberico deve essere riguardato come il più incisivo, e di gran lunga: giudizio che si può ancora oggi sottoscrivere, con l’unica precisazione che, assai più di quello spagnolo, fu penetrante l’influsso catalano.
La diffusione del catalano, lingua ufficiale dei conquistatori sino al 1479, fu più rapida e intensa nella regione meridionale dell’isola che non in quella settentrionale, ove in ogni caso essa fu tutt’altro che blanda, come mostrano i numerosi imprestiti giunti in quest’epoca anche al logudorese; in particolare, poi, il catalano si affermò nelle città, e a Cagliari più che altrove, mentre nel contado si continuò a parlare il sardo. Per testimoniare la forza con la quale il nuovo idioma si radicò nella Sardegna meridionale, si usa citare l’espressione ancora in uso in campidanese no šíri ṡu ǥađalánu, letteralmente «non sapere il catalano», che viene impiegata in riferimento a persona che ha difficoltà a esprimersi (dunque: «non saper parlare»). Volendo poi citare degli esempi della penetrazione del nuovo idioma nel lessico sardo, non si ha che l’imbarazzo della scelta: ricordiamo, un po’ a caso, voci come il camp. aíči «così» (cat. així); il camp., centr. e log. merid. bardúf(f)ula «trottola» (cat. baldufa); il log. e camp. barƀéri «barbiere» (cat. barber); il camp. e barb. bláu, bráu «azzurro, celeste» (cat. blau); il camp. buččákka, centr. buttsákka, log. bušákka «tasca, saccoccia» (cat. butxaca, botxaca, bojaca); il log. (fíǥu) burdašòtta «specie di fico nero, brogiotto» (cat. bordissot); il camp. e centr. brassólu, brattsólu, bartsólu «culla» (cat. bressol, brassol); il camp., barb. e centr. kađíra «sedia» (cat. cadira); il log. kamèḍḍa «arco del giogo dei buoi» (cat. camella); il log. karabássa «specie di zucca lunga» (cat. carabassa); il log. kartsòffa, iskartsòffa, camp. kančòffa, končòffa (cat. carxofa, escarxofa); il log. e camp. síndri̯a «anguria» (cat. sindria, cindria); il log. e camp. gravéllu «garofano» (cat. clavell); il log. diṡidzare, camp. diṡiǧǧai «desiderare» (cat. desitjar); il camp. skrukkullai «indagare, scrutinare, rovistare» (cat. escorcollar); il log. ispram(m)are, camp. spram(m)ai «spaventare» (cat. espalmar); il log. istimare, camp. stimai «amare, voler bene, stimare» (cat. estimar); il camp. e nuor. ferréri «fabbro» (cat. ferrer); il camp. gòččus «composizioni poetiche in onore dei santi» (cat. goigs); il camp. léǧǧu, centr. lédzu «brutto» (cat. lleig); il log. leƀréri «conca di terracotta» (cat. llibrell); il log. matéssi «stesso» (cat. mateix); il camp. míǧa, centr. mídza «calza» (cat. mitja); il log. e camp. oril’èttas «frittura di pasta al burro con zucchero o miele» (cat. orelleta); il camp. arratapiñáta, arratapinnáta «pipistrello» (cat. rata-pinyada); il log. e camp. retáulu «tavola dipinta» (cat. retaule); il camp. arrevél’u (de óu) «tuorlo dell’uovo» (cat. rovell (d’ou); il camp. sab(b)áta «scarpa» e sab(b)at(t)éri «calzolaio» (cat. sabata, sabater); il camp. sa ṡèu, nuor. sa ṡèa «la cattedrale» (cat. seu); il log. e camp. tankare, tankai «chiudere» (cat. tancar); il camp. ullèras, ul’èras «occhiali» (cat. ulleres), etc.
Per quanto riguarda lo spagnolo, il suo
uso tardò a farsi strada nell’isola, soprattutto in quelle zone in cui più
aveva preso piede il catalano, ossia nella Sardegna meridionale, ove bisognerà
attendere la fine del Seicento per poter parlare di una vera e propria
fruizione del nuovo codice linguistico. Anche per questa ragione si è potuto
affermare che l’influsso linguistico spagnolo è stato più sensibile nella
regione settentrionale dell’isola, come mostrano alcuni casi in cui, per
esprimere un medesimo significato, si ha in campidanese un termine di origine
catalana e in logudorese uno di provenienza spagnola: così, per es., si è già
visto che per «brutto» si ha in camp. léǧǧu
(dal cat. lleig), mentre in log.
prevale féu (dallo sp. feo),
e così pure le composizioni poetiche in onore dei santi sono denominate gòččus (dal cat. goigs) in camp., mentre in log. si ha gòṡos (dallo sp. gozos).
Ecco comunque altri esempi di vocaboli penetrati in sardo dallo spagnolo: log. akkab(b)are, camp. akkab(b)ai «finire, terminare» (sp. acabar); log. e centr. kòrča,
kòrtsa, camp. kòrča,
kròčča «coltre» (sp. colcha); log. akkunortare, camp. akkunortai «confortare, consolare» (sp. ant. conhortar); nuor. adi̯óṡo, log.
e camp. adi̯óṡu «addio» (sp. adiós); log. attoppare, camp. attoppai «incontrare» (sp. topar); log. e camp. ap(p)oṡéntu, ap(p)uṡéntu «stanza, camera, alloggio»
(sp. aposento); log. arréu «di continuo» (sp. ant. arreo); camp. aṡúlu «azzurro» (sp. azul);
log. e camp. de bbáđas «invano,
inutilmente» (sp. de badas); nuor. e log. barratsèllos, camp. barračèllus «guardie campestri» (sp. ant. barrachel); log. kal(l)ènte, camp. kal’ènti,
kal(l)ènti «caldo» (sp. caliente); log. e camp. kalentúra, kallentúra «febbre» (sp. calentura);
log. amparare, camp. amparai «proteggere, difendere» e log. diṡamparare, camp. diṡamparai «abbandonare» (sp. amparar,
desamparar); log. duđare, camp. duđai «dubitare» (sp. dudar);
log. infađare, camp. infađai «infastidire, annoiare»
(sp. enfadar); log. ispantare, camp. spantai «spaventare» (sp. espantar);
log. e camp. fulánu «un tale» (sp. fulano);
log. loǥrare, camp. loǥrai «ottenere, conseguire» (sp. lograr); log. luègo, luègu, camp. luègu(s)
«sùbito» (sp. luego); log. olvidare, camp. olvidai
«dimenticare» (sp. olvidar); log. e camp. pirikíttu «dolcetto glassato» (sp. periquillo); log.
e camp. prátta «argento» (sp. plata);
log. soƀrare, suƀrare
«avanzare, sopravanzare» (sp. sobrar); log. e camp. sumbréri «cappello» (sp. sombrero); log. assustare, camp. assustai «spaventare» (sp. asustar);
log. e camp. ventána
«finestra» (sp. ventana), etc.
Resta infine da rilevare che per numerose voci riesce difficile stabilire con certezza se esse provengano al sardo dal catalano o dallo spagnolo, stante la stretta affinità esistente fra le due lingue: è il caso, ad es., di termini quali il log. e camp. karrèra, karrèla «via, strada» (cat.‑sp. carrera); del log. faltare, fartare, camp. fartai «mancare» (cat.‑sp. faltar); del log. kansare, camp. kansai, kantsai «stancare», rifl. «stancarsi» (cat.‑sp. cansar); del log. e camp. gána «voglia, desiderio, appetito» (cat.‑sp. gana); del log. e camp. mánta «coperta» (cat.‑sp. manta); del log. e camp. poṡáđa «luogo di riposo, albergo» (cat.‑sp. posada); del log. e camp. díčča «fortuna» (cat. ditxa, sp. dicha); del log. mukkađòre, camp. mukkađòri «fazzoletto» (cat.‑sp. mocador), etc.
§ 5. Il quadro dialettale in Sardegna.
5.1. Varietà non sarde. Iniziando dalle varietà linguistiche alloglotte presenti nell’isola, ricordiamo in primo luogo l’algherese, parlata catalana ancora oggi vitale ad Alghero, nella regione nord‑occidentale, nata in séguito al ripopolamento della cittadina nel 1354 con elementi catalani. Inoltre, a Carloforte e a Calasetta, nella Sardegna sud‑occidentale, si parla un dialetto ligure, il tabarchino, sviluppatosi a partire dal 1738, quando Carlo Emanuele III di Savoia concesse l’isola di San Pietro a dei coloni originari di Pegli provenienti da Tabarca, di fronte alla costa tunisina.
Più complessa è la questione relativa al sassarese e al gallurese, varietà parlate nella regione settentrionale dell’isola: a ovest il sassarese, tutt’oggi in uso, oltre che nella città di Sassari, a Sorso, Porto Torres e Stintino; a est il gallurese, che ha come zona di diffusione appunto la Gallura (seppure non uniformemente: al suo interno, ad es., Luras costituisce un’isola linguistica logudorese). In effetti, nonostante in passato sul tema si siano avute polemiche anche accese, è più che fondato dal punto di vista scientifico — adottando cioè dei parametri di classificazione di tipo glottologico e non geografico o, peggio, politico — considerare, come faceva il Wagner, il sassarese e il gallurese dei dialetti italiani che devono essere riuniti al corso e al toscano, in ciò basandosi sulle profonde differenze fono‑morfologiche, sintattiche e lessicali che allontanano queste parlate dal sardo nel suo complesso. Volendo supportare quest’affermazione con delle prove concrete, ci limitiamo a citare tre fatti, fra i tanti: il primo, di ordine fonetico, è che tanto nel gallurese come nel sassarese (e nei dialetti toscani) è assente il fenomeno della metafonia così caratteristico del sardo, per il quale, come si è già chiarito (§ 2.1), il timbro della vocale tonica è determinato meccanicamente da quello delle vocali che seguono; restando sempre nell’àmbito della fonetica, un secondo fatto che si può sottolineare è che, mentre il sardo conserva le consonanti finali, nel sassarese‑gallurese così come nel corso queste cadono (con ripercussioni importantissime sulla morfologia, dal momento che si determina in questo modo l’assenza di morfemi consonantici); infine, proprio nell’àmbito della morfologia, che in questioni di questo tipo è dirimente, rammentiamo che mentre l’articolo determinativo è in sardo su, sa, sos, sas (dal lat. ipsu(m); al pl. in campidanese si ha is, che in ogni caso ha la medesima origine), in sassarese e in gallurese si ha al sg. lu, la, al pl. li (a partire dal lat. illu(m)).
Dal punto di vista storico, per comprendere le ragioni e le radici di questa condizione di diversità, bisognerà in primo luogo prendere atto dell’origine recente dei due dialetti in regioni in cui in precedenza si parlava il logudorese, lingua in cui furono redatti ancora nel 1316 gli Statuti municipali di Sassari. A partire dal XII sec., tuttavia, l’influenza toscana nella Sardegna del nord (così come, si è già visto, nella regione meridionale) era divenuta forte per effetto delle immigrazioni provenienti dal continente, fatto che si evince, oltre che dagli imprestiti (toscani, ma anche genovesi) presenti nei già ricordati Statuti Sassaresi, anche analizzando la particolare fisionomia dei dialetti logudoresi settentrionali, che mostrano una veste fonetica con profondi influssi continentali. A partire da questo periodo, dunque, dovette iniziare il processo di formazione delle due parlate settentrionali; l’intenso spopolamento che interessò nei secoli successivi il nord Sardegna e il conseguente ruolo svolto da genti di origine corsa, pisana e genovese nel ripopolamento di queste zone dovette dare poi un impulso decisivo a tale processo. Per la Gallura, in particolare, sappiamo, grazie agli studi del geografo francese Maurice Le Lannou, che a partire dall’inizio del 1700 essa fu ripopolata per tre quarti da Corsi, il che giustifica il fatto che oggi il gallurese si presenti ai nostri occhi come un dialetto corso. Per il sassarese, poi, si può pensare col Wagner che esso fosse in origine «un dialetto plebeo che, secondo tutti gli indizi, si stava formando a poco a poco a partire dal sec. XVI, dopo che varie pestilenze mortalissime avevano decimato la popolazione della città; dei superstiti la massima parte era di origine pisana e còrsa, e non mancavano neanche i genovesi. Così nacque quel dialetto ibrido che oggi si parla a Sassari, a Porto Torres ed a Sorso, la cui base è un toscano corrotto con qualche traccia genovese (‑r‑ per –l‑: ara ‘ala’; mera ‘mela’…), e con non pochi vocaboli sardi».
5.2. Varietà sarde. Venendo ora ai dialetti propriamente sardi, la prima e fondamentale divisione riguarda lo spazio linguistico settentrionale, in cui è parlato il logudorese, e quello meridionale, in cui è parlato il campidanese. Già in precedenza abbiamo messo in rilievo alcune importanti caratteristiche fonetiche che separano le due varietà, rilevando che esse sono storicamente da imputarsi all’assunzione in area meridionale di tratti innovativi legati all’influsso pisano (rammentiamo: la palatalizzazione delle occlusive velari, esemplificata dal tipo čéntu, e l’esito italiano delle labiovelari, come mostra il tipo ákwa), sicché si può concludere che è il logudorese, e in particolare il logudorese centrale (nella regione intorno a Núoro), la parlata più conservativa rispetto al latino, e questo non soltanto nell’àmbito dell’isola, bensì dell’intera Romània.
Volendo poi menzionare degli altri fenomeni che contribuiscono a differenziare i due principali gruppi dialettali, ricordiamo che ciascuno di essi presenta un particolare tipo di prostesi (la prostesi è quel fenomeno per il quale si ha lo sviluppo di una vocale non etimologica in principio di parola: si pensi all’ital. letterario istrada, iscuola etc.): in logudorese, infatti, si registra la prostesi di i‑ davanti a s + cons. (es.: dal lat. scire si hanno log. e nuor. iskire «sapere»; da spica(m) nuor. ispíka, log. ispíǥa «spiga»; da stare log. e nuor. istare «stare», etc.), fenomeno oggi assente in campidanese (ove le forme corrispondenti sono pertanto širi, spíǥa, stai); in campidanese, al contrario, si osserva la prostesi di a, e, o davanti a r‑ iniziale di parola, che contestualmente si rafforza (es.: dal lat. rivu(m) si hanno le forme arríu, erríu «fiume, ruscello»; da rota(m) arròđa, orròđa «ruota»), sviluppo che viceversa è assente in logudorese (ove le forme corrispondenti sono ríƀu, ríu e ròta, ròđa). Ancora, un tratto distintivo che separa le due varietà è la chiusura in campidanese delle e e delle o finali in i ed u rispettivamente: per es., log. káne «cane» ~ camp. káni, log. kánes «cani» ~ camp. kánis; log. dòmo «casa» ~ camp. dòmu, log. dòmos «case» ~ camp. dòmus. Un altro fatto importante, che riguarda la morfologia e che già in precedenza è stato ricordato, è che il campidanese ha come articolo determinativo pl. is per entrambi i generi grammaticali, laddove il logudorese presenta sos per il maschile e sas per il femminile.
Molti altri fatti potrebbero essere ancora enumerati per rendere conto delle differenze oggi osservabili fra il logudorese e il campidanese, tuttavia preferiamo affidare questo compito a dei testi in trascrizione fonetica, che consentono un contatto immediato con le parlate vive. In conclusione, però, vale la pena di puntualizzare che una distinzione così netta, come quella qui proposta, fra due sole varietà è sì scientificamente corretta, ma potrebbe — oltre che tenere conto delle aree linguistiche di transizione presenti, con caratteristiche miste, fra un gruppo e l’altro — essere più articolata per il fatto che il panorama dialettale dell’isola è assai ricco, specialmente se si adottano dei parametri di classificazione di tipo fonetico: si può infatti affermare, senza esagerare troppo, che pressoché ogni paesino della Sardegna ha nella pronuncia particolarità proprie (per uno sguardo più approfondito sull’argomento, accludiamo una carta linguistica tratta da un contributo di Maurizio Virdis in LRL, citato in bibliografia).
Proponiamo ora tre testi sardi in trascrizione fonetica adattata che ricaviamo, insieme alla traduzione in italiano (letterale: la modifichiamo soltanto in alcuni dettagli), da una raccolta del linguista Gino Bottiglioni pubblicata nel 1922. Incominciamo dalla varietà nuorese:
sa kréṡi e ṡántu vrantsísk e lúla.
unu bandíu nugoréṡu vi kkirkáu đa ṡa dzustíssia k aía ffatt una mòrte e ffi kkuƀáu nd una tank akkúrtsi a llúla; fi ddisperáu e ssikommènti vi mmèđa divóttu e ffit un ómmine mèđa ƀónu, s est invokáu a ssántu vrantsísku ki átterar ƀòrtaṡ aía ssarƀáu bandíoṡ e impinnò a ssu ṡántu ki ṡi lu đíat áe ssárƀau, li đía ffáker una kréṡia n onòre ṡúo dzust i ss or úƀe vi kkuƀá íssu. sor de sa dzustíssia ṡun koláuṡ i ss orikéḍḍ úƀe vi kkuƀáu ṡu bandíu e nno ll ána ƀíđu e ṡu bandíu rikkonnoskènt a mmantéṡu ṡ impinnassiòne vatta, a ffravikáu
ṡa kréṡia e kkađ ánnu víntsaṡ a ssa mòrte, i ssu meṡ e mái̯u est aṇḍáu kin tóttu ṡa vamíllia a ffáke ssa noƀèn a ssántu vrantsísku.
La chiesa di San Francesco di Lula.
Un bandito nuorese era cercato dalla giustizia, che aveva fatto una morte (poiché aveva ucciso) ed era nascosto in una tanca vicino a Lula; era disperato e siccome era molto devoto ed era un uomo molto buono, si è rivolto a San Francesco che altre volte aveva salvato banditi e fece voto al Santo che se lo avesse salvato, gli avrebbe fatto una chiesa in onore suo giusto vicino dove era nascosto esso. Quelli della giustizia sono passati vicinissimo dove era nascosto il bandito e non l’hanno visto e il bandito riconoscente ha mantenuto l’impegno fatto, ha fabbricato la chiesa e ogni anno fino alla morte, nel mese di maggio è andato con tutta la famiglia a fare la novena a San Francesco.
Il testo che segue è nella varietà logudorese di Pozzomaggiore:
sa ƀíƀera.
b aíađ unu đémpus ki ṡa ƀíƀera aṇḍái rrèa ǥommènti ṡoṡ ómines e dde iǥústu íssa ṇḍe vi mmèđa ƀaddzòṡa. ma nòstra ṡiññòra dispi̯áǥiđa, a kkélfiđu ǥastiǥáre ṡa supérbia ṡúa, faǥíṇḍela ṡa ƀi̯úl fèa e ssa ƀi̯úṡ úmile đe đóttu ṡoṡ átteroṡ animáles.
una đíe ṡa ƀíƀera ṡ e ppost a ppassiddzáre đòtta ƀaddzòṡa iṇḍ una bèlla índza; in su mèntres ki ƀasseddzái nnarái kki vi ssa ƀi̯úl bèlla đe đóttu ṡoṡ átteroṡ animáles e ssi brullái dde s atteliǥèlta ƀuítte no aṇḍái rrèa ǥommènte íssa. de iǥústu nòstra ṡiññòra ṡ iṇḍe vi mmèđa đispi̯áǥiđa e a ffíntsas pi̯ántu e arrabbiáđa, lèađ unu vúste e lli đađ unu béllu ándzu, vaǥíṇḍel abbaššár e aṇḍár istrišèṇḍe ǥommènt e iṡ atteliǥèlta. eđ es pu ǥússu ǥi ṡa ƀíƀera ǥòmmo no áṇḍa ppi̯ú rrèa.
La vipera.
C’era un tempo che la vipera andava dritta come gli uomini e di questo essa ne era molto vanitosa. Ma Nostra Signora, dispiaciuta, ha voluto castigare la sua superbia, facendola la più brutta e la più umile di tutti gli altri animali.
Un giorno la vipera si è posta a passeggiare tutta vanitosa in una bella vigna; nel mentre che passeggiava, diceva che era la più bella di tutti gli altri animali e si burlava della lucertola perché non andava dritta come lei. Di questo Nostra Signora se ne era molto dispiaciuta ed ha perfino pianto e arrabbiata, prende un bastone e le dà una bella percossa, facendola abbassare e andare strisciando come la lucertola. Ed è per ciò che la vipera ora non va più dritta.
Presentiamo infine un testo nella varietà campidanese di Monserrato:
ǧenniáu.
a
ssu đémpu de is piṡánuṡ ingúna n ǧenniáu ḍḍúi vuèđa na
minièr i òru, ǥ
immòi no ssi ƀóđiđ
aǥattái ƀruṡ e nno ssi ši
ssu ƀúntu ǧústu de innú vuèđa
nnántiṡi. su mer e sa minièra đeníađ una vílla bèlla ǥe ss arròṡa ǥi vuèđ unu spántu
su ḍḍa bíri. kápitađ una ddi ǥ
iǥústa ƀassèndi nd unu ǥurridói e sa minièra, no
ssi ši kommènti ṡi ṡía, kústa nd est arrútt e inkotía nč
iḍḍ ađ in méṡu, boččendíḍḍa ǥáṡu ṡúbbitu.
de insáṡa no ssi ši sa minièra ǥummènti
ṡíađ andáđa; fáttu stái ka ṡ intèndiđ akkánt e ǧenniáu nu đeṛáiu ǥi đèssiđi. e
ss ánima de ǥússa ǧóvuna bèlla ǥi
đèssi kund unu đeṛái
i òru i ađ a ttèssi ṡèmpiri víntsaṡ a kkándu iṡ
oratsiòni de ǥaṛankún ánima
bòna no ḍḍ ant a llibberái de ssa ƀèna.
e ppo iǥússu ǥi ǥústu
llóǥu ṡi nára
ǧenniáu ǥi óṛi nnái ǧenn i òru.
Genniau.
Al tempo dei Pisani, qui in Genniau c’era una miniera d’oro che ora non si può trovare più e non si sa il punto giusto dove era prima. Il padrone della miniera aveva una figlia bella come la rosa, che era una meraviglia a vederla. Capita un giorno che questa, passando in un corridoio della miniera, non si sa come sia, questa è caduta e l’ha chiusa in mezzo, uccidendola quasi subito. Da allora non si sa la miniera come sia andata; fatto sta che si sente accanto a Genniau un telaio che tesse. È l’anima di quella giovane bella che tesse con un telaio d’oro e tesserà fino a quando le orazioni di qualche anima buona non la libereranno dalla pena. È per quello che questo luogo si chiama Genniau che vuol dire Porta d’oro.
§ 6 Alcune considerazioni sul rapporto lingua‑cultura
in Sardegna.
Dovendo affrontare il discorso dei rapporti fra lingua e cultura in Sardegna è in qualche modo obbligo prendere le mosse dalle riflessioni del Wagner su questo tema, uno dei prediletti nella sua attività di ricerca, come appare del resto in modo chiarissimo sin dal titolo di alcune importanti pubblicazioni del glottologo tedesco. Basti ricordare che nel 1921 vide la luce il fondamentale Das ländliche Leben Sardiniens im Spiegel der Sprache. Kulturhistorisch‑sprachliche Untersuchungen («La vita rustica della Sardegna riflessa nella lingua. Ricerche culturali‑storico‑linguistiche»), opera recentemente proposta in edizione italiana a cura di Giulio Paulis nella quale è studiato, secondo i dettami dell’indirizzo Wörter und Sachen («parole e cose»), il lessico agro‑pastorale sardo in connessione con la cultura rustica della quale esso è espressione: il sottotitolo, in particolare, accomunando nella prospettiva storica cultura e lingua, cose e parole, chiarisce uno dei cardini teorici costantemente in circolo nell’opera del Wagner, riassumibile nella persuasione che solo la conoscenza profonda della cultura di un popolo, sperimentata e vissuta in prima persona e non semplicemente studiata sui libri, può avviare a intenderne correttamente le manifestazioni linguistiche, convinzione che, del resto, trova riscontro in modo complementare nella preferenza accordata dal Wagner allo studio del lessico, il settore più efficace, attraverso l’analisi della sua origine e composizione, dei valori semantici espressi in modo dominante, delle singole vicende etimologiche, a lumeggiare la storia culturale.
Nel 1932, poi, il Wagner pubblicava l’articolo Die sardische Sprache in ihrem Verhältnis zur sardischen Kultur («La lingua sarda in rapporto alla cultura sarda»), ove, come pure è stato recentemente sottolineato, viene espresso con chiarezza il concetto di Geist der Sprache («spirito della lingua») a definire l’impronta profonda che una determinata favella riceve dalla cultura, dalla mentalità, dalle vicende storiche della comunità presso la quale è in uso: così il sardo, in quanto, fondamentalmente, lingua di pastori e di contadini, si presentava agli occhi del Wagner in modo consequenziale come ricco di espressioni attinenti alla sfera rustica, alle operazioni e agli oggetti che sostanziavano la dominante cultura agro‑pastorale dell’isola, mentre risultava al contrario povero di espressioni astratte, per le quali ricorreva a imprestiti da altre lingue (quelle dei dominatori di turno) o, più di rado, all’uso traslato di termini di significato concreto.
Nel 1950, infine, il Wagner pubblicava la sua opera forse più importante, La lingua sarda. Storia, spirito e forma, nella quale riemerge in modo sin troppo evidente, programmatico, il riferimento allo «spirito della lingua», a chiarire come il centro degli interessi del linguista tedesco in relazione al sardo fosse costituito dall’intersezione di una cultura tipica, caratterizzata in senso nettamente arcaico da una struttura sociale e da un’economia agro‑pastorale, con una lingua altrettanto peculiare nel panorama delle lingue romanze, e ciò, a un primo livello di analisi, per la presenza di tratti fono‑morfologici, sintattici e lessicali straordinariamente conservativi, ma, a un livello più profondo di introspezione, per la consonanza con quella cultura isolana che tanto incontrò la simpatia spirituale del Wagner.
Concetti come «spirito (o genio) di una lingua» non possono naturalmente essere più accettati in toto, come categorie linguistico‑filosofiche con le quali sia possibile operare ancora oggi; riteniamo tuttavia che la trama dei riferimenti teorici presenti nei lavori del Wagner, peraltro sempre tenue, sottintesa e calata nella prassi della ricerca, possa agevolmente essere isolata dall’aspetto concreto, qualificante, delle indagini portate avanti dal glottologo tedesco, dalle quali emerge una capacità di lettura del rapporto fra lingua e cultura dei Sardi che a tutt’oggi non ha eguali.
Lingua, dunque, di pastori e di contadini, il sardo rivela a un’analisi attenta del suo lessico e delle sue espressioni concrete e metaforiche questo carattere, come è agevole evidenziare selezionando un po’ a caso alcuni fra gli innumerevoli esempi segnalati dal Wagner. Nei dialetti centrali (Bitti, Núoro, Dorgali, Fonni) per «strizzare i panni» si usa l’espressione múrĝere ṡos pánnos, letteralmente «mungere i panni», che nasce in una cultura pastorale nella quale, in modo istintivo e fors’anche scherzoso, si paragona l’operazione della strizzatura a quella della mungitura. Una porta socchiusa è detta in logudorese e nelle varietà centrali a un imbòe, a unu òe, a bbòe etc. perché permette il passaggio di un solo bue per volta. In campidanese, ancora, per «ciarlare, chiacchierare» è in uso il verbo arǧolai e similmente arǧoléri significa «chiacchierone», entrambi derivati da arǧòla «aia», evidentemente perché quando si stava nell’aia a ventilare il grano il passatempo più diffuso era quello di chiacchierare. La trebbiatura (log. tríula, camp. tréula) è un’operazione talmente caratteristica e importante nella cultura agraria sarda da divenire un termine di paragone per definire altre esperienze e un punto di riferimento per circoscrivere il periodo dell’anno in cui essa ha luogo: in campidanese tréulu significa infatti «chiasso, scompiglio» («perché il sardo pensa al rumore che produce la battitura del grano nelle aie a mezzo dei buoi o dei cavalli»: sono parole del Wagner) e, nella regione settentrionale della Sardegna, tríulas è il nome del mese di luglio. Questi sono soltanto alcuni esempi, ma numerosi altri ugualmente significativi potrebbero essere citati al riguardo.
Anche ponendosi da un’angolazione diversa dell’analisi linguistica, è agevole evidenziare la fondamentale nota culturale della lingua sarda, langue de paysans: ci riferiamo al caso dei tabù linguistici, il cui punto di partenza è la convinzione, universalmente diffusa, che pronunciare il nome delle cose non serva unicamente a designarle, ma abbia come conseguenza la loro evocazione. Nel caso di esseri o eventi temuti o comunque sgradevoli (si pensi, per esempio, a certe malattie), perciò, viene bandito dall’uso anche il nome, che non può essere pronunciato perché, così facendo, il parlante renderebbe presente l’essere o l’evento indesiderato. In questi casi, dunque, il nome coperto da tabù linguistico viene sostituito con un eufemismo (cioè, in pratica, un’espressione sostitutiva, meno compromessa: male incurabile) o addirittura col silenzio. In sardo, in coerenza con una cultura contadina nella quale gli animali predatori sono causa di forte preoccupazione, la donnola è chiamata eufemisticamente in molti centri yána e múru, cioè letteralmente «fata del muro», assimilata in qualche modo alle piccole fate che si riteneva abitassero le tombe preistoriche che per questo motivo prendono il nome di dòmoṡ de yánas. In altre zone (Sardegna meridionale) essa è invece chiamata, partendo da identiche finalità interdittorie, búkk’ e mèli, bukkamèli, cioè, letteralmente, «bocca di miele», perché la donnola sarda è ghiotta di miele. Stesso discorso per il nome della volpe, la cui pericolosità per i pollai è persino proverbiale: in sardo si ha in conseguenza tutta una serie di denominazioni eufemistiche per indicare questo predatore, alcune volte tratte da nomi propri di persona, come mari̯áne, dzoṡèppe, ǧommaría, altre volte generiche come animále, bésti̯a, mattsòne (cioè «dalla coda a forma di mazza»), etc. Nel Dizionario etimologico sardo M. L. Wagner ritrova la continuazione del lat. vulpe(m) = gúrpe soltanto in 3 centri (Orani, Ollolai, Ottana), sottolineando che nel resto dell’isola si hanno per l’animale denominazioni tabuistiche.
L’esemplificazione potrebbe continuare a lungo, ma qui basti riassumere il concetto fondamentale: la lingua sarda ha elaborato a partire dalla sfera della vita agro‑pastorale, il settore privilegiato dell’esperienza della comunità in cui essa è in uso, tutta una serie di espressioni, metafore, sviluppi semantici secondari, interdizioni linguistiche in cui emerge in modo caratterizzante e prevalente il sistema primario di referenti proprio di questa comunità.
È opportuno, tuttavia, precisare alcune questioni. Lo studio del Wagner in relazione al sardo, condotto — come si è più volte accennato — in prospettiva storico‑etimologica e rivolto soprattutto alle zone interne della Sardegna, nelle quali più a lungo si è mantenuta una struttura socioculturale straordinariamente arcaica e una lingua assai vicina al latino, è uno studio che guarda al passato, mira cioè a cogliere nella civiltà sarda gli aspetti più conservativi. È noto che lingua e cultura di una comunità hanno ritmi di sviluppo differenti: «il mutamento linguistico è più lento del mutamento culturale e perciò la lingua conserva le tracce delle culture perdute: i nomi restano più a lungo delle cose» (R. Lazzeroni). Così, per fare un esempio concreto, la locuzione italiana mangiare la foglia, «comprendere le intenzioni nascoste di una persona», «intuire che le cose stanno in modo differente da come si vorrebbero fare apparire», nasce probabilmente in ambiente contadino come similitudine rispetto al mondo animale, alludendo al fatto che gli animali vaccini adulti, dopo aver poppato da lattanti, hanno mangiato le foglie, hanno cioè maturato esperienza e dunque la scaltrezza che consente di non essere ingannati. È evidente che l’espressione, se l’interpretazione che se ne è data è corretta, ha un sostrato culturale differente da quello in cui si svolge la nostra civiltà industriale e tecnologica, nella quale tuttavia essa continua a essere usata sebbene non più compresa in profondità: solo l’analisi storico‑etimologica restituisce alla locuzione indicata una contestualizzazione adeguata.
In termini simili, ossia in un’ottica diacronica, si colloca la riflessione del Wagner in rapporto alla lingua sarda, con una differenza sostanziale, però: la Sardegna che lo studioso tedesco conobbe al principio di questo secolo era una terra in cui «regnavano ancora, almeno nell’Interno, condizioni di vita patriarcali, che ricordano i tempi biblici e omerici». In tale situazione, con il ritmo del mutamento culturale straordinariamente rallentato, la storia della cultura e la storia della lingua procedevano — specialmente nelle regioni più appartate — di pari passo o comunque con ritmi non troppo difformi: per fare un esempio concreto, le motivazioni culturali sottese al tabù linguistico che colpisce il nome della volpe dovevano essere largamente presenti alla comunità dei Sardi, trasparenti cioè e non opache quali sarebbero divenute in breve volgere di tempo nel contesto di una civiltà prevalentemente urbana.
Oggi il quadro è mutato enormemente: l’isola è uscita, in modo progressivo dopo le due guerre mondiali, dal secolare isolamento nel quale era immersa, e la repentina accelerazione del ritmo culturale alla quale si è assistito negli ultimi decenni ha creato un divario fra la lingua, in origine espressione di un mondo fondamentalmente pastorale e agrario, e la cultura, sempre più legata a predominanti modelli di tipo industriale e tecnologico che vengono dall’esterno. In quest’ottica di piani sfalsati, che qui si è cercato brevemente di illustrare, si gioca oggi il rapporto lingua‑cultura in Sardegna e, in confronto al passato, si assiste a una situazione assai pericolosa per l’idioma isolano, nello scollamento continuo dalla cultura della quale è stato a lungo espressione, cultura che, d’altra parte, è per molti versi ancora oggi vitale e deve essere considerata un’acquisizione indispensabile per radicare le generazioni più giovani nel proprio territorio, per creare un senso di appartenenza.
§ 7. Nota bibliografica.
7.1. Bibliografia generale. Per la terminologia linguistica si può consultare, ad es.:
· G. L. Beccaria (a cura di), Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, Torino (Einaudi) 1996 (19891).
Per quanto concerne il sardo, come storia della lingua e opera in assoluto fra le più significative fra quelle scritte sull’idioma isolano, va menzionata innanzitutto:
· M. L. Wagner, La lingua sarda. Storia, spirito e forma, a cura di G. Paulis, Núoro (Ilisso) 1997: riedizione dell’opera comparsa per la prima volta nel 1950 e in séguito con alcune ristampe, sconsigliabili tuttavia per i numerosi errori presenti nella trascrizione delle voci sarde e per l’assenza di indici; da segnalare, nella recente riedizione, anche la densa Prefazione del curatore.
In tempi più vicini a noi hanno visto la luce:
· A. Sanna, Introduzione agli studi di linguistica sarda, Cagliari (Valdés) 1957;
· E. Blasco Ferrer, Storia linguistica della Sardegna, Tübingen (Max Niemeyer) 1984.
Come grammatica descrittiva, assai chiara e non priva di analisi di tipo storico‑etimologico, è consigliabile:
· M. Pittau, Grammatica del sardo-nuorese. Il più conservativo dei parlari neolatini, Bologna (Pátron) 19722.
Più recentemente, fra gli altri lavori di questo tipo, ricordiamo:
· E. Blasco Ferrer, Ello Ellus. Grammatica sarda, Núoro (Poliedro) 1994.
Fra i dizionari, va ricordato per primo:
· M. L. Wagner, Dizionario etimologico sardo (= DES), 3 voll., Heidelberg (Carl Winter) 1960‑1964: eccellente per gli studiosi, tuttavia di consultazione un po’ complicata per i non addetti ai lavori a causa del criterio di ordinamento dei lemmi.
Recentemente è comparso un nuovo dizionario etimologico del sardo:
· M. Pittau, Dizionario della lingua sarda. Fraseologico ed etimologico, I vol.: sardo‑italiano, Cagliari (Gasperini) 2000 (più etimologico che non fraseologico).
Fra i dizionari non etimologici, ricordiamo:
· G. Spano, Vocabolariu Sardu‑Italianu, Cagliari (Tipografia Nazionale) 1851, e Vocabolario Italiano‑Sardo, Cagliari (Tipografia Nazionale) 1852: di quest’opera è uscita una recente riedizione in 4 voll., comprendente i 5000 lemmi dell’inedita Appendice manoscritta di G. Spano, a cura di G. Paulis, Núoro (Ilisso) 1998;
· V. Porru, Dizionariu universali sardu‑italianu, Casteddu (Tipografia Arciobispali) 1832;
· L. Farina, Bocabolariu Sardu Nugoresu‑Italianu, Sassari (Gallizzi) 1987, e Vocabolario Italiano‑Sardo Nuorese, Sassari (Gallizzi) 1989 (ricchi di materiali interessanti, ma da utilizzare con cautela);
· M. Puddu, Ditzionàriu de sa limba e de sa cultura sarda (= DitzLcs), Cagliari (Condaghes) 2000 (eccellente vocabolario monolingue, ricco di fraseologia);
· E. Espa, Dizionario sardo italiano dei parlanti la lingua logudorese, Sassari (Carlo Delfino) 2000.
Per la fonetica vanno segnalati:
· M.L. Wagner, Fonetica storica del sardo, a cura di G. Paulis, Cagliari (Trois) 1984 (edizione ital. di Historische Lautlehre des Sardischen, Halle (Max Niemeyer) 1941);
·
M. Contini, Étude de géographie phonétique et de phonétique instrumentale du sarde,
2 voll., Alessandria (Dell’Orso) 1987;
· M. Virdis, Fonetica del dialetto sardo campidanese, Cagliari (Della Torre) 1978.
Per la morfologia e la formazione delle parole, oltre a tenere presenti le grammatiche sopra citate, si vedano:
· M. L. Wagner, Flessione nominale e verbale del sardo antico e moderno, in «L’Italia dialettale» 14 (1938), pp. 93-170 e 15 (1939), pp. 1-29;
·
M. L. Wagner, Historische Wortbildungslehre des
Sardischen, Bern (Francke) 1952.
Per la sintassi è disponibile:
·
M. A. Jones, Sardinian Syntax, London -
New York (Routledge) 1993.
Fra le inchieste dialettologiche sul sardo, ricordiamo:
·
R. Böhne, Zum Wortschatz der Mundart des
Sárrabus (Südostsardinien), Berlin (Akademie Verlag) 1950;
·
P. Jäggli, Die Mundart von Sennori (Provinz
Sassari, Sardinien), Zürich (Juris Druck) 1959;
·
Ch. Gartmann, Die Mundart von Sorso (Provinz
Sassari, Sardinien), Zürich (Juris Druck) 1967;
· E. Blasco Ferrer, Le parlate dell’Alta Ogliastra. Analisi dialettologica / Saggio di storia linguistica e culturale (Studi di Linguistica sarda, 1), Cagliari (Della Torre) 1988;
· H. J. Wolf, Studi barbaricini. Miscellanea di saggi di linguistica sarda (Studi di Linguistica sarda, 2), Cagliari (Della Torre) 1992;
· M. Piras, La varietà linguistica del Sulcis. Fonologia e morfologia (Studi di Linguistica sarda, 3), Cagliari (Della Torre) 1994.
Si tengano inoltre presenti i contributi sul sardo di E. Blasco Ferrer, M. Contini, A. Dettori, I. Loi Corvetto, M. Virdis, H. J. Wolf in:
·
G. Holtus – M. Metzeltin – Ch. Schmitt (a cura di), Lexikon der
Romanistischen Linguistik (= LRL), IV vol., Tübingen (Max Niemeyer) 1988,
pp. 836‑935.
7.2. Bibliografia relativa ai singoli argomenti trattati.
§ 1. In relazione alle tematiche qui discusse, si veda la Prefazione di Giulio Paulis alla riedizione de La lingua sarda, citata in precedenza. Per un’elencazione dei principali lavori del Wagner sul sardo, si veda:
·
G.
Paulis, Max Leopold Wagner e la
Sardegna del primo Novecento, saggio introduttivo a M. L. Wagner, La vita
rustica della Sardegna riflessa nella lingua, a cura di G. Paulis, Núoro (Ilisso) 1996 (=
edizione ital. di Das ländliche Leben
Sardiniens im Spiegel der Sprache. Kulturhistorisch‑sprachliche
Untersuchungen, Heidelberg
(Carl Winter) 1921).
Per un inquadramento e una valutazione della produzione scientifica del Wagner nell’àmbito della linguistica romanza, si può consultare:
·
I. Iordan
– J. Orr, Introduzione alla
linguistica romanza, a cura di L.
Borghi Cedrini, Torino (Einaudi) 1973 (= edizione ital. di An Introduction to Romance Linguistics. Its Schools and Scholars, London 1937), pp. 84‑86, 165, 456‑457.
§ 2. Per la posizione del sardo nell’àmbito delle lingue romanze, si può utilizzare, ad es.:
· C. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, Bologna (Pátron) 19826.
Per la nozione di ‘lessico di base’, si veda:
·
G. R.
Cardona, Dizionario di
linguistica, Roma (Armando) 1988, s.v. lessico.
Per la fonetica si è fatto riferimento specialmente alla Fonetica storica del sardo del Wagner, per la morfologia alla Flessione nominale e verbale del sardo antico e moderno dello stesso autore e alla Grammatica del sardo‑nuorese del Pittau, per il lessico al capitolo de La lingua sarda del Wagner dedicato al fondo latino del lessico sardo: tutte opere già citate in precedenza.
L’abbreviazione REW impiegata nel testo si riferisce a:
· W. Meyer‑Lübke, Romanisches Etymologisches Wörterbuch, Heidelberg (Carl Winter) 19926 (rist.): è il dizionario etimologico delle lingue romanze, coi vari lemmi contraddistinti da numeri arabi.
§ 3. Sul sostrato punico, oltre all’apposito capitolo de La lingua sarda, si sono utilizzati soprattutto:
·
M. L. Wagner, Die Punier und ihre Sprache in
Sardinien, in «Die Sprache» 3/1 (1954), pp. 27‑43, e 3/2 (1955), pp.
78‑109;
·
G.
Paulis, Sopravvivenze della lingua punica in Sardegna, in L’Africa romana. Atti del VII Convegno
di Studio (Sassari 1989), Sassari 1990, pp. 599‑639.
Nella discussione sul sostrato paleosardo, abbiamo tenuto presenti la sezione de La lingua sarda che tratta dell’elemento indigeno e inoltre, per la fitonimia:
· G. Paulis, I nomi popolari delle piante in Sardegna. Etimologia, storia, tradizioni, Sassari (Carlo Delfino) 1992;
per le notizie sul berbero:
·
M. L. Wagner, Restos de latinidad en el
norte de África, Coimbra 1936;
per la toponimia isolana:
· G. Paulis, I nomi di luogo della Sardegna, Sassari (Carlo Delfino) 1987;
· M. Pittau, I nomi di paesi, città, regioni, monti, fiumi della Sardegna, Cagliari (Gasperini) 1997;
· H. J. Wolf, Toponomastica barbaricina. I nomi di luogo dei comuni di Fonni, Gavoi, Lodine, Mamoiada, Oliena, Ollolai, Olzai, Orgòsolo, Ovodda, Núoro (Insula) 1998.
§ 4. Per l’analisi dei vari superstrati linguistici avvicendatisi nell’isola, si sono tenuti particolarmente in considerazione i capitoli de La lingua sarda dedicati all’elemento germanico, all’elemento greco e bizantino, all’elemento italiano e all’elemento catalano e spagnolo, e inoltre, citandoli in base alla cronologia dei corrispettivi superstrati, i seguenti lavori:
· G. Lupinu, La prostesi di i- davanti a s- impuro nelle iscrizioni latine di Sardegna e nel sardo neolatino, c.d.s.;
· G. Paulis, Lingua e cultura nella Sardegna bizantina. Testimonianze linguistiche dell’influsso greco, Sassari (L’asfodelo) 1983;
· I. Loi Corvetto, La Sardegna, in I. Loi Corvetto – A. Nesi, La Sardegna e la Corsica, Torino (UTET) 1993, pp. 1‑205;
· G. Paulis, Le parole catalane dei dialetto sardi, in J. Carbonell – F. Manconi (a cura di), I Catalani in Sardegna, Milano (Pizzi) 1984, pp. 155‑163.
§ 5. Oltre al capitolo de La lingua sarda dedicato a i dialetti sardi, si sono utilizzati, per la discussione sul sassarese e il gallurese:
· M. L. Wagner, La questione del posto da assegnare al gallurese e al sassarese, in «Cultura Neolatina» 3 (1943), pp. 243‑267;
· A. Sanna, Il dialetto di Sassari (e altri saggi), Cagliari (Trois) 1975;
· G. Paulis, Gino Bottiglioni e la Sardegna. Lingua e cultura, in Gino Bottiglioni, Vita sarda, a cura di G. Paulis e di M. Atzori, Sassari (Dessì) 1978, pp. 7‑62;
· M. Le Lannou, Pastori e contadini di Sardegna, a cura di M. Brigaglia, Cagliari (Della Torre) 1979 (edizione ital. di Pâtres et paysans de la Sardaigne, Tours (Arrault) 1941).
Per la classificazione dialettale delle parlate sarde e per i testi in trascrizione fonetica, si sono poi consultati, rispettivamente:
· M. Virdis, Areallinguistik / Aree linguistiche, in G. Holtus – M. Metzeltin – Ch. Schmitt (a cura di), Lexikon der Romanistischen Linguistik (= LRL), IV vol., Tübingen (Max Niemeyer) 1988, pp. 897‑913;
· G. Bottiglioni, Leggende e tradizioni di Sardegna (Testi dialettali in grafia fonetica), Genève (Olschki) 1922.
§ 6. Oltre che al fondamentale lavoro del Wagner La vita rustica della Sardegna riflessa nella lingua, con il saggio introduttivo di G. Paulis, già citati in precedenza, si è fatto riferimento particolare al seguente articolo:
·
M. L. Wagner, Die sardische Sprache in ihrem Verhältnis
zur sardischen Kultur, in
«Volkstum und Kultur der Romanen» 5 (1932), pp. 21‑49.
Sono stati consultati anche:
· R. Lazzeroni, La cultura indoeuropea, Roma‑Bari (Laterza) 1998;
· M. Cortelazzo - P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna (Zanichelli) 19992, s.v. fòglia (la spiegazione etimologica indicata è di U. E. Paoli).
In generale sui rapporti fra lingua e cultura, si veda:
· G. R. Cardona, Introduzione all’etnolinguistica, Bologna (Il Mulino) 1976.